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martedì 14 febbraio 2012

La Chiesa di San Marcuola

La Chiesa di San Marcuola fu costruita tra il IX e il X secolo, nell'area anticamente denominata "Luprio", ed era titolata ai Santi Ermagora e Fortunato. Verso la seconda metà del Duecento, l'edificio religioso venne completamente distrutto da un incendio, e immediatamente ricostruito grazie all'intervento di alcune famiglie della zona, tra cui la famiglia Memmo.
Dalla pianta cinquecentesca del De Barbari si vede come la chiesa fosse in stile gotico, con il lato destro parallelo al Canal Grande, il lato sinistro prospettante sulla Fondamenta lungo il Rio della chiesa (oggi interrato), mentre la facciata dominava il Campiello, tuttora esistente, che fungeva da sagrato e dove sorgeva l'alta mole del campanile d'impostazione romanica con una cuspide ottagonale. Di esso rimane solo la base tra la chiesa e il vicino palazzo Memmo.
A fine Seicento l'architetto Antonio Gaspari presentò dei progetti per il rinnovo della chiesa, ma i lavori furono molto lenti e quando nel 1730 Gaspari morì, il nuovo edificio era appena abbozzato. L'opera fu continuata da Giorgio Massari, che completò l'edificio nel 1736, anche grazie al contributo statale generato dalla percentuale destinata alle opere pubbliche ricavata dalle entrate del gioco del lotto.
Solo la facciata sul Canal Grande risulta incompleta, come dimostrano i quattro plinti privi delle colonne corinzie previste e la grande superficie a mattoni con le scanalature e i fori che servivano per sostenere il rivestimento in pietra d'Istria. Interessante notare che la facciata in questione, seppur appaia come la facciata principale, risulta essere in realtà la facciata laterale, in quanto il corpo dell'edificio ha mantenuto l'orientamento originario, per cui entrando da quel lato l'altare principale si trova sulla destra. Questo perché, a differenza di quanto accadeva alle origini della storia veneziana, dal Cinquecento in poi si tende a considerare più importante l'affaccio sul Canal Grande, per aumentarne il prestigio.
L'interno della chiesa merita una visita non solo per le numerose opere pittoriche, tra cui due tele del Tintoretto, ma anche perché ospita la tomba di Johann Adolf Hasse e di sua moglie, la cantante Faustina Bordoni, allieva di Benedetto Marcello, della quale si può ammirare la bellezza in un quadro di Rosalba Carriera conservato a Ca' Rezzonico.
J.A.Hasse, compositore tedesco, divenne Maestro di Cappella agli Incurabili di Venezia nel 1727, contribuendo a scrivere pagine importanti della storia della musica a Venezia. Abitava proprio in Campo San Marcuola, dove morì il 16 dicembre 1783, forse per il dolore della morte della moglie Faustina avvenuta nel 1781.

(Fonte: M.C. Bizio)

mercoledì 1 febbraio 2012

Ospedale dei Forner a Venezia

A pochi passi dal Ponte della Madonna de l'Orto, al civico 3378, sorgeva un tempo l'Ospedale dei Fornai, costruito nel Quattrocento dalla medesima Scuola per i propri confratelli poveri, vecchi o infermi. Il termine "ospedale" veniva  utilizzato con un senso più ampio di luogo dedito non solo alla cura, ma anche al ricovero di anziani e a volte di orfanotrofio.
Dai documenti dell'epoca scopriamo che il terreno acquistato dai Fornai per la costruzione del detto edificio costò ben mille ducati! Una cifra davvero notevole per l'epoca, ma evidentemente la Scuola era ben florida.
Questa corporazione di mestiere aveva sede nella cappella absidale sinistra della Chiesa della Madonna dell'Orto; l'altare in questione era stato disegnato e realizzato dal tajapiera (scalpellino) Filippo Gasparo, il quale venne compensato con 85 ducati.
La Scuola dei Forner fu istituita nel 1445 e nella Mariegola (statuto) si trovano notizie interessanti: regole per cucinare i diversi tipi di pane e i relativi prezzi, gli anni di garzonato (apprendistato), le concessioni ai maestri per affittare i forni, le licenze per cucinare il panbiscotto per gli equipaggi delle navi e le specifiche per i tipi di legno da utilizzare per la cottura.
Sempre all'interno della Mariegola si trovano anche disposizione di carattere religioso, come pesanti multe per chi nominava il diavolo (forse ricordato dalle fiamme dei forni) e l'espulsione dall'Arte per chi non si confessasse e comunicasse almeno una volta l'anno!

venerdì 27 gennaio 2012

La diplomazia veneziana

Già nel XI secolo, con alcuni secoli d'anticipo rispetto agli altri Stati Europei, la Repubblica di Venezia crea delle sedi diplomatiche permanenti su suolo straniero. E' un modo rivoluzionario di stringere rapporti con gli stranieri e non solo dal punto di vista commerciale.
Per tutta la sua lunga storia la Serenissima cercherà sempre di evitare le armi, se non come ultima scelta possibile, puntando piuttosto sulla soluzione pacifica; e ben presto l'arte diplomatica veneziana diventa celebre e riconosciuta internazionalmente. Basti ricordare quel capolavoro di mediazione che fu la "Pace di Venezia" nel 1177, quando Papa Alessandro III e Federico Barbarossa trovarono soluzione ai loro conflitti in Basilica di San Marco.
Ci piace ricordare anche un aneddoto significativo avvenuto a Roma nella seconda metà del Quattrocento: Papa Giulio II, nel corso di un'udienza in San Pietro, chiese in tono canzonatorio all'ambasciatore veneziano quale diritto la Repubblica Serenissima potesse vantare sul Mare Adriatico. La risposta del diplomatico fu fulminante: "Vostra Santità lo troverà scritto sul rovescio della carta di donazione che Costantino vi ha fatto della città di Roma".
Proprio in quel periodo il pontefice aveva infatti chiesto a Raffaello di rappresentare in Vaticano la storia della donazione della città fatta dall'imperatore alla Chiesa, tradizione non testimoniata da alcun documento!

lunedì 16 gennaio 2012

Jacopo Antonio Marcello e l'impresa impossibile

La presenza della famiglia Marcello a Venezia è documentata con certezza dal 982, quando fu sottoscritto l'atto di donazione dell'isola di San Giorgio Maggiore all'ordine benedettino. Tra i firmatari figura anche un Pietro Marcello, dal quale ha formalmente inizio una linea genealogica che giunge fino ai giorni nostri, e che può vantare anche un doge, Nicolò, eletto nel 1473.
Nel corso dei secoli i Marcello si distinsero soprattutto nel mestiere delle armi, dando alla Repubblica molti comandanti di terra e di mare. Nel XV secolo Jacopo Antonio Marcello, grande umanista e mecenate, combatté valorosamente contro i Visconti, signori di Milano. In quel tempo l'esercito milanese assediava numerose città venete e pareva impossibile contrastarlo via terra. Jacopo Antonio ebbe allora la folle idea di trasportare una quarantina di navi attraverso le colline che separano l'Adige dal Lago di Garda, per aggirare il nemico e poter combattere sull'acqua, habitat ideale per l'esercito veneziano. L'impresa era ardita, ma il coraggio fu premiato, dopo giorni di trascinamento delle galee tra i boschi, su dei rulli di legno, il lago fu raggiunto. Venezia sorprese e sbaragliò così le truppe viscontee. E di lì a poco liberò Verona, Brescia, Ravenna e Ferrara.

venerdì 30 dicembre 2011

Il miglior decrittatore di messaggi cifrati d'Europa

Fra le Magistrature di Venezia ve n'erano di veramente particolari. Per esempio la Serenissima nominò "Segretario alle cifre", nel 1506, Giovanni Soro, che altri non era se non il miglior decrittatore di messaggi cifrati d'Europa.
La sua fama era talmente diffusa che alcuni Stati spedivano alla Serenissima i plichi intercettati perché fossero decifrati. Nel 1526 papa Clemente VII gli inviò due crittogrammi particolarmente difficili, ed entrambi gli furono restituiti col testo in chiaro. In un altra occasione invece, poiché un crittogramma della Santa Sede era stato intercettato dalle spie fiorentine, il pontefice ne mandò una copia a Venezia per essere rassicurato circa l'inviolabilità del messaggio. Soro dichiarò di non essere in grado di decifrarlo, e a Roma si concluse che i fiorentini non potevano aver fatto di meglio. Si pensa però che la risposta di Soro mirasse a infondere un falso senso di sicurezza nei colleghi vaticani. Una risposta differente avrebbe potuto spingerli infatti ad adottare crittogrammi più difficili, che forse nemmeno Soro sarebbe più riuscito a violare!
Sempre a proposito delle magistrature della Serenissima, va ricordato che Venezia fu la prima nella storia a riconoscere il diritto di "copyright" sulle invenzioni dell'uomo. Una disposizione del 1474 assegna infatti ai Provveditori de Comun il compito di sovrintendere alla registrazione dei brevetti.

venerdì 23 dicembre 2011

Palazzo Foscarini ai Carmini e le sue stranezze

Un aneddoto, circolante a Venezia nel Settecento, ci rende ragione di quanto ricchi fossero i Foscarini: era voce comune, infatti, che nel loro palazzo situato di fronte alla Chiesa dei Carmini vi fossero più di 200 stanze e nemmeno una sedia per timore che gli ospiti, sedendosi, potessero rovinare le preziose decorazioni degli interni.
Un vero scrigno di tesori artistici, quindi, testimonianza della passione per l'arte e del mecenatismo che caratterizzarono molti componenti della prestigiosa famiglia, la quale possedeva già numerosi palazzi in città.
In ogni caso la famiglia era nota anche per certe loro stranezze. Il loro membro più illustre, Marco Foscarini, eletto doge nel 1762 era uomo particolarmente erudito, ma noto soprattutto per la sua esagerata passione per i coralli, tanto che il celebre letterato Gasparo Gozzi, spesso suo ospite nel bel palazzo di famiglia, si lamentava del fatto che ogni conversazione, in ogni momento della giornata, dovesse riguardare quell'argomento tanto insolito!
Oggi il palazzo è in parte privato e in parte occupato da una delle sedi dell'Università Ca' Foscari di Venezia, ma il suo stato di conservazione non è ottimale e necessita di un integrale restauro.

lunedì 19 dicembre 2011

Il mistero di Ca' Dario

Affacciato sul Canal Grande, tra l'Accademia e la Salute, si trova uno dei più affascinanti palazzi di Venezia: Ca' Dario. Non molto alto, piuttosto stretto (la facciata è più corta di una gondola) e inclinato verso destra, ha una splendida facciata rinascimentale in pietra d'Istria, decorata con marmi policromi e medaglioni circolari.
Il palazzo venne fatto realizzare da Giovanni Dario nel 1487, su un preesistente edificio gotico, ispirato ai modi di Pietro Solari detto il Lombardo.
Giovanni Dario era un mercante di origine cretese, ma fu anche uomo dotato di grande personalità, cultura umanistica e diplomazia, tanto che divenne notaio della Cancelleria Ducale; ma soprattutto viene ricordato per aver negoziato l'accordo di pace del 1479 con il sultano Mehmet II.
Alla sua morte il palazzo passò in eredità alla figlia Marietta, che andò in sposa a Vincenzo Barbaro e da questi al figlio Gasparo. Il palazzo restò della famiglia Barbaro fino alla fine del Settecento.
Da quel momento accadde qualcosa di strano al palazzo che divenne foriero di disgrazie di ogni sorta per chi ne divenne proprietario.
Riportiamo qui solo alcuni esempi:
- Un commerciante armeno di pietre preziose, Arbit Abdoll, fece bancarotta poco dopo aver acquistato il palazzo - Rawdon Brown, ai primi dell'800, si suicidò all'interno del palazzo insieme al compagno, probabilmente a causa dello scandalo provocato dal loro legame omosessuale - Henry De Reigner si ammalò gravemente dopo l’acquisto del palazzo e fu costretto a tornare in Francia - Il conte Giordano delle Lanze, venne ucciso nel palazzo, colpito alla testa con un vaso dal marinaio croato di 18 anni che viveva con lui e che dopo l’omicidio fuggì a Londra, dove venne a sua volta assassinato -  Il manager degli Who, Christoph Lambert, vi muore d’infarto  -  Nel 1964 si fece avanti il tenore Mario Del Monaco che però ruppe le trattative quando, mentre si stava recando a Venezia per perfezionare la compravendita, fu vittima di un gravissimo incidente stradale che ne interruppe per lungo tempo l'attività - All'inizio degli anni Ottanta il palazzo venne acquistato da un uomo d’affari veneziano, Fabrizio Ferrari, che vi si trasferì insieme con la sorella Nicoletta: anch'egli fece bancarotta in poco tempo mentre la sorella morì in un incidente stradale senza testimoni - Alla fine degli anni Ottanta il palazzo venne acquistato dal finanziere Raul Gardini, il quale, dopo una serie di rovesci economici e il coinvolgimento nello scandalo di Tangentopoli, si suicidò tragicamente pochi anni dopo.

Qualcuno ha fatto notare che sulla facciata del palazzo che dà sul Canal Grande si può leggere "Urbis Genio Joannes Darius", che significa "Giovanni Dario al genio della città", ma anagrammando la frase latina diventa: "Sub ruina insidiosa genero", cioè "genero insidiose rovine a chi abita sotto questo tetto".

lunedì 12 dicembre 2011

Musica a Venezia

Proviamo ad immaginare la sorpresa degli stranieri che arrivano a Venezia per la prima volta e scoprono che all'ora della messa e dei vespri le chiese risuonano di una musica travolgente di virtuosità, eseguita da ensemble formati unicamente da fanciulle, le quali non solo cantano come angeli, ma suonano anche il violino, il clavicembalo, il corno e il contrabbasso! Chiese piene di una folla di appassionati che hanno acquistato il loro posto nel tempio sacro, esattamente come fanno per l'opera durante la settimana.
La fama di queste fanciulle giunge in tutta Europa: Parigi, Londra, Berlino, Vienna, San Pietroburgo... Jean-Jacques Rousseau scrive che spesso tra il pubblico c'erano anche attori e cantanti di fama internazionale..
Queste misteriose giovani che vivono in una sorta di clausura, e il cui talento uguaglia quello delle dive più adulate delle scene dell'opera, sono in realtà orfane soccorse per strada al fine di evitar loro una vita tristemente destinata alla prostituzione, e alle quali, in seno agli Ospedali (a Venezia gli Ospedali erano anche ospizi e orfanotrofi) che le accolgono, viene insegnata musica e canto.
Contribuisce senz'altro al successo di queste fanciulle, il fatto che cantino sempre nascoste dietro alle grate dei barchi e delle tribune, alimentando quindi un senso di mistero e di fantasia sulla loro ipotetica bellezza pari solo alla loro bravura.
In ogni caso le cappelle musicali femminili degli Ospedali rappresentano molto più di una semplice curiosità, esse sono infatti per la Serenissima un vero e proprio simbolo, un simbolo mistico e politico, legato in modo indissolubile alla storia della città. I loro canti sono l'allegoria stessa di Venezia-Venere, della Venere uscita dalle acque che in Venezia si identifica con la Vergine Maria (non a caso la data leggendaria della fondazione della città viene fatta risalire al 25 marzo, giorno dell'Annunciazione). Era quindi con grande orgoglio che il governo veneziano invitava principi, imperatori e ambasciatori ad ascoltare i concerti di queste speciali fanciulle.
Pochissimi i fortunati ch'ebbero l'occasione di conoscerle personalmente, tra questi ricordiamo J.J. Rousseau che ebbe il privilegio di poter entrare presso l'Ospedale dei Mendicanti e conoscere le ragazze del coro... ma ne rimase un poco deluso:
"Entrando nel salotto che conteneva quelle divine beltà tanto desiderate, provai un fremito d'amore. Il signor Le Blond mi presentò, una dopo l'altra le celebri cantanti, di cui voce e nome era quanto mi era noto: "Venite Sofia"... era orribile,  "Venite Caterina" ... era guercia, "Venite Bettina"... il vaiolo l'aveva sfigurata.... Quasi nessuna era immune da una qualche notevole imperfezione. Quell'uomo rideva della mia crudele delusione. Pure, due o tre, mi parvero discrete. Ero sconfortato. Durante la merenda, le stuzzicammo, e esse si misero in allegria. La bruttezza non esclude la grazia, ne scoprii. Mi dicevo: "Non si canta così senz'anima, esse ne hanno". Alla fine il mio modo di vederle mutò a tal punto che uscii quasi innamorato di quei mostriciattoli" (J.J. Rousseau, "Confessioni").

Oggi in città esistono ancora delle tracce di questo passato musicale e grazie ai percorsi musicali de L'altra Venezia è possibile ripercorrerne la storia.


 

martedì 6 dicembre 2011

All'inizio fu il sale

Il prefetto romano Cassiodoro, nel VI secolo dc, ci lascia una descrizione minuta della laguna e dei suoi abitanti. Tra le immagini più colorite spicca la descrizione dell'uso di legare una barca fuori di casa invece del cavallo. Ma quello che colpisce di più è la considerazione che mentre gli altri fanno girare falci e aratri, gli abitanti della laguna ricavano e triturano sale. E ciò che all'inizio era una pura necessità, diventa ben presto un'immensa fonte di guadagno, dato che il sale assumerà un valore altissimo, tale da essere usato come moneta di scambio.
All'inizio dunque è il sale. E le notizie, anche se incerte e frammentarie fanno supporre che in laguna si estraesse il sale fin dai tempi dei romani. Nel paesaggio lagunare, appena antropomorfizzato, queste rudimentali saline nel volgere di alcuni secoli, diventano sempre più funzionali e facilmente gestibili. Tanto che Lorenzo de Monacis nel suo Chronicon scrive che erano veramente sorprendenti e magnifiche e una delle cose che più ammiravano i foresti in visita. Gli abitanti della laguna però non le chiamavano saline, ma "fondamentum".
Alla fine del XII secolo si contano 120 fondamenti, di cui una settantina nella laguna di Chioggia e molte altre tra Murano, Torcello e Sant'Erasmo. Ma quello che è davvero sorprendente è il numero di saline presenti all'interno della stessa Venezia: circa una decina! Nel Trecento se ne ricordano ancora a San Silvestro, ai Frari e a San Basilio. Ma già nel Quattrocento queste saline cittadine scompaiono e resta solo il ricordo nella toponomastica "Fondamenta".
In ogni caso la produzione di sale è così immensa che Venezia detiene il monopolio per la fornitura del sale in tutta Europa e nel Mediterraneo orientale. Il sale, sia grezzo che raffinato, viene conservato in enormi magazzini situati parte sull'isola della Giudecca e parte nei depositi alla Punta della Dogana.
Naturalmente all'epoca il sale non veniva usato solo per insaporire i piatti, ma anche, anzi, soprattutto per la conservazione dei cibi.

lunedì 21 novembre 2011

I meccanismi del governo della Repubblica Serenissima di Venezia

La forma di governo istituitasi a Venezia era una Repubblica oligarchica, giacché solo i nobili potevano accedere all'organo di potere più importante: il Maggior Consiglio. Uno Stato oligarchico è paragonabile ad un club, gestito per la soddisfazione ed il benessere di tutti i soci. A Venezia i "soci" erano appunto i patrizi, e il club doveva essere amministrato in modo da mantenere sempre un equilibrio fra i diversi interessi ed ambizioni esistenti in un gruppo di circa 200 famiglie, diverse per numero, censo e parentele, ed i cui membri, a loro volta, erano diversi per età, formazione e temperamento.
Questo equilibrio era essenziale, poiché gli stessi oligarchi, attraverso le strutture amministrative, dovevano garantire altri equilibri: quelli sociali della città, quelli dello Stato da Mar, quelli del Dominio di Terraferma e quelli internazionali. Dal Dogato all'ultima funzione amministrativa, tre erano i requisiti fondamentali: l'efficacia della funzione, l'impossibilità per il funzionario di creare un potere personale o ereditario, l'evitare conflitti tra le funzioni. Anche se Venezia non avesse fatto altro nei suoi dieci secoli d'indipendenza che elaborare la propria costituzione, sarebbe sufficiente ad immortalarne la fama.
Nei primi secoli vi furono tentativi di alcune famiglie nobili di rendere ereditario il Dogato o quanto meno di esercitare un certo controllo sul corpo elettorale. Sebbene nessuno di questi tentativi ebbe successo, già nel XI secolo si ebbero riforme costituzionali atte ad impedirli. Il doge Jacopo Tiepolo (1229-1249) elaborò la formula della "promissione", una sorta di contratto tra il Doge e il Maggior Consiglio che delimitava fortemente i poteri del primo.
Nel 1268 fu introdotto il definitivo sistema d'elezione del doge, che comportava ben dieci fasi: esclusi dai membri del Maggior Consiglio coloro che non avevano ancora compiuto trent'anni, fra i rimanenti si sceglievano 30 patrizi per ballottaggio in modo da non permettere che una famiglia avesse più di un rappresentante eleggibile. Con un secondo sorteggio venivano ridotti a 9, i quali ne eleggevano 40, ridotti per nuovo sorteggio a 12. Questi ne eleggevano 25, ridotti nuovamente a 9, che a loro volta ne eleggevano 45, su cui si sorteggiavano 11 i quali sceglievano i 41 elettori finali che procedevano all'elezione del Doge. Sistema complicato che testimonia quanta importanza si dava all'evitare la trasmissione ereditaria della funzione.
Direttamente in rapporto con il Doge erano i vari Consiglieri, i Procuratori, i Pregadi, i Savi e, indirettamente, una varietà di magistrati: Avogadori, Apontadori, Camerlenghi, Cassieri, Consoli, Governadori, Giudici, Masseri della Zecca, Officiali, Provveditori e Pagadori. Ogni corpo della Magistratura era poi suddiviso per responsabilità specifiche e per aree cittadine ed extra-cittadine. Alcune di queste cariche erano vitalizie, la più parte con limiti di tempo che variavano da sei mesi a due anni; alcuni erano stipendiati, altri no; alcuni dovevano avere un'età massima, altri un età minima.
Si aggiungano a queste magistrature: i Podestà, i Castellani, i Capitani del Dominio di Terraferma, i Capitani da Mar, i Baili e gli Ambasciatori, fiore della diplomazia europea. Un elenco preciso comporterebbe centinaia di voci, ma anche questo sguardo sintetico alla struttura amministrativa della Serenissima permette di valutarne la complessità e il gran numero di uomini capaci che la classe patrizia doveva produrre anno dopo anno.
Forse l'analogia migliore con il governo veneziano si trova nel libro 1984 di George Orwell: "L'essenza di un governo oligarchico non è la trasmissione del potere da padre in figlio, ma la continuità di una certa concezione del mondo e un certo modo di vivere imposto dai morti sui vivi. Un gruppo governante è tale in quanto abbia il potere di formare i propri successori. Chi detiene il potere non è importante a condizione che la struttura gerarchica non cambi".
Si spiega così perché è impossibile scrivere una storia della Serenissima riportando in ordine cronologico la storia individuale dei 120 Dogi.
A Venezia il potere era anonimo.

(Fonte: G. Villa)

lunedì 7 novembre 2011

Fondamenta Zattere

Di fronte all'isola della Giudecca si trova una larga fondamenta, fatta costruire in pietra per decreto del Magistrato alle Acque dell'8 febbraio 1519 e terminata nel 1531. La fondamenta è molto lunga, giacché parte da Santa Marta, costeggia tutto il Canale della Giudecca fino alla Punta della Dogana e ha nome al plurale: le Zattere.
In realtà la fondamenta è suddivisa in: Molin, al Ponte Longo, ai Gesuati, agli Incurabili (dove si trova anche una targa dedicata al poeta Josif Brodskij), allo Spirito Santo, ai Saloni, de la Dogana, a la Salute; ma tutti la chiamano semplicemente "Zattere".
Anticamente veniva chiamata Carbonaria, come era chiamato anche il canale della Giudecca, per i carichi di carbone che qui arrivavano e si scaricavano. Poi fu chiamata Zattere perché vi approdavano le grosse zattere che, navigando lungo i fiumi che scendono dalle montagne venete, portavano il legname in città. Vi fu anche un decreto dei Provveditori alle Legne e Boschi del 1640, che imponeva a tutti i trasportatori di legname di scaricare esclusivamente in questo luogo. Nel XVII secolo alle Zattere esisteva anche un teatro per opere musicali.
Vi si affacciano inoltre le chiese dei Gesuati e dei Domenicani, oltre all'enorme complesso dell'antico Ospedale degli Incurabili, oggi occupato dall'Accademia di Belle Arti di Venezia.
La Fondamenta è senz'altro una delle più belle passeggiate di Venezia e, per l'esposizione a sud, vi si può gustare un po' di calore nelle giornate di sole autunnali, o ammirare meravigliosi tramonti sulla laguna.

lunedì 31 ottobre 2011

Via Garibaldi

Posta all'inizio della Riva dei Sette Martiri, in realtà è un rio terà. Fu realizzata nel 1807 interrando il canale preesistente e unendo le due fondamente che lo affiancavano, e chiamata Via Eugenia in onore di Eugène Beauharnais, allora viceré d'Italia. Il nome venne poi modificato in Strada Nuova dei Giardini, infine nel 1866, con l'ingresso delle truppe italiane, la via venne dedicata a Giuseppe Garibaldi, al quale fu poi innalzato il monumento all'ingresso dei Giardini.
Posta nel popoloso sestiere di Castello, la via Garibaldi è sempre piena di vita; ricca di negozi di ogni tipo, bar, ristoranti e una chiesa (San Francesco da Paola); un tempo c'era anche un cinema. Alla mattina vi si trova un mercato di frutta, verdura e pesce, e si respira aria di paese.
Il turista che percorre la via Garibaldi, tracciando una diagonale tra l'isola di San Pietro e la Basilica della Salute che si intravede all'orizzonte, vi giunge un po' timido ma di buon umore, perché crederà d'aver preso finalmente confidenza con la città e perché da poco si è fatto fotografare accanto alle enormi ancore del Museo Navale (gemelle di quelle del Ministero della Marina a Roma). Eccolo dunque, il turista, imboccare con baldanza l'anomalo boulevard di cui poco sa, visto che dalle guide è praticamente ignorato.
Secondo Napoleone e l'architetto Antonio Selva, questa strada doveva conferire modernità ed eleganza alla città, ma al contrario, a due secoli di distanza, via Garibaldi è divenuta la linea di confine oltre la quale resiste nella sua grandezza e nella sua miseria la venezianità popolare che riesce a relegare il turista a mera tappezzeria.
La via è sempre animata: al mattino, tra i banchi del mercato, le casalinghe scendono in pantofole per fare più in fretta la spese, salvo poi trattenersi a parlare tra di loro (bandita ovviamente la lingua italiana) delle cose di cui parlano le donne da sempre: i figli, gli uomini e gli schei ("soldi") che non bastano mai; al pomeriggio sciami di bambini giocano ancora ai giochi di una volta; mentre la sera, bar e osterie traboccano di uomini (per lo più artigiani e barcaioli). Il turista sopraggiunto, proverà a comprendere qualcosa di quegli infervorati dialoghi, potrà farlo liberamente giacché nessuno gli baderà, ma non capirà nulla, se non forse che si sta parlando di barche e di pesce; ma se tornerà l'indomani e, meglio, ancora il giorno dopo, sarà accolto come chi si appresta a far parte della comunità.
Questo succede nel sestiere di Castello, sventrato dalla volontà di Napoleone, ma giammai estirpato della sua venezianità.

giovedì 13 ottobre 2011

Toponomastica veneziana

Venezia è tutta particolare e la sua toponomastica non è da meno. Proviamo a segnalare alcune delle forme con cui vengono indicate le vie e le piazze in questa città.

Calli: sono le vie veneziane: lunghe, larghe, strette, luminose, buie, odorose, puzzolenti, dritte, curve, silenziose, chiassose, ce ne sono per tutti i gusti (NB: singolare: calle, plurale: calli - da non confondere con il fiore: calla, plurale: calle)
Campi: sono il corrispondente delle piazze delle altre città, di dimensioni variabili ("campiello" se è piccolo, "campazzo" se è grande), solitamente con una o più vere da pozzo. Si chiamano in questo modo perché anticamente erano letteralmente dei campi erbosi (ad oggi è rimasto così solo quello di San Pietro di Castello)
Corte: è un campo con un solo sbocco
Fondamenta: sono calli con da un lato le case e dall'altro un rio o un canale
Lista: un tempo indicava le strade davanti ad una Ambasciata straniera (come la Lista di Spagna, vicino alla Stazione Santa Lucia)
Piazza: a Venezia ce n'è una sola, Piazza San Marco
Piscina: anticamente indicava un'area di acqua stagnante, oggi sono tutte interrate
Ramo: di solito una piccola calle che immette in una calle più importante, oppure una calle senza sbocco (se non magari su un rio)
Rio terà: un rio interrato e trasformato in calle
Ruga: è una calle con botteghe su ambo i lati
Salizada: sono le calli che per prime vennero selciate

domenica 21 agosto 2011

Ponte delle Tette

Il Ponte delle Tette si trova a San Cassiano, nella zona detta delle Carampane. La storia di questo nome curioso è molto semplice. Vicino a Rialto, le Carampane era una di quelle aree di Venezia nelle quali le prostitute erano obbligate a concentrarsi per disposizione delle leggi sull'ordine pubblico.
Per attirare la clientela, esse sedevano sulle finestre a seno nudo e con le gambe penzoloni per mostrare tutte le loro grazie, o ancor di più, stavano completamente nude davanti alle finestre: il tutto proprio sopra il ponte in questione.
Si narra che potessero stare in questi atteggiamenti grazie ad un'ordinanza del XV secolo che, addirittura, le incoraggiava a mostrarsi per richiamare clienti. Questo per distogliere la popolazione maschile da un'ondata di omosessualità che era diventata quasi un problema di stato. Si ritrovano infatti, tra i fascicoli dei processi più famosi, molti casi contro omosessuali o per violenza "contro natura". Ad esempio tale Francesco Cercato fu impiccato per sodomia tra le colonne della Piazzetta San Marco nel 1480, e tale Francesco Fabrizio, prete e poeta, fu decapitato e bruciato nel 1545 per il "vizio inenarrabile". Comunque sia, sembra che l'omosessualità fosse molto diffusa nella Venezia del Cinquecento, tanto da indurre le prostitute, nel 1511, ad inviare una supplica al procuratore Antonio Contarini affinché facesse qualcosa in merito, perché sembrava non avessero più clienti.
Forse però la vera ragione della loro crisi economica era un'altra: nel 1509 a Venezia vi erano 11.654 cortigiane censite (su una popolazione di 150.000 abitanti...), con tale abbondanza di offerta sembra logico pensare che i guadagni pro-capite calassero di molto!

mercoledì 20 luglio 2011

Isola Monte dell'Oro

Questo piccolo isolotto deve il suo suggestivo nome ad un'antica leggenda che lo vuole depositario, nelle sue viscere, del tesoro di Attila. Sembra infatti che gli Unni, inseguendo gli abitanti di Altino, che cercavano rifugio nella laguna di Venezia, fossero finiti impantanati con i loro pesanti carri in queste insidiose barene. Proprio lì, il più pesante di questi carri, carico del bottino di guerra e, secondo la leggenda, dello stesso arco di Attila, finì inghiottito nel fango.
Molti pescatori narrano che di notte si possono ancora vedere gli spiriti degli Unni che vigilano sul tesoro; tesoro ritenuto maledetto perché chiunque provò a cercarlo morì di morte violenta.
Data la posizione strategica, l'isola venne utilizzata per ricoprire un ruolo nel sistema difensivo ottocentesco della laguna. Vi si costruì una postazione d'artiglieria con un presidio di una cinquantina di militari.
Oggi l'isola si presenta come un dosso dalla forma tondeggiante con alle spalle la Palude della Rosa, e del tutto spoglia. Non resta che la suggestione del nome, l'affascinante vista sul paesaggio lagunare ed il piacere di cogliere qualche mora selvatica in estate sognando tesori nascosti.

lunedì 4 luglio 2011

Atlantide a Venezia

Anche Venezia ha la sua Atlantide: si tratta di Metamauco (Malamocco). Verso l'estremità sud dell'isola del Lido c'è oggi una borgata, Malamocco, in bilico tra mare e laguna, che ha ereditato il nome dell'antichissima Metamauco, culla della storia della Serenissima.
Metamauco venne probabilmente fondata dai padovani in fuga dalle invasioni barbariche nel VI secolo, quindi divenne sede del Governo veneziano negli anni dal 742 all'810, quando in seguito all'assalto dei Franchi guidati da Pipino, figlio di Carlo Magno, il doge Angelo Partecipazio decise di trasferire la sede ducale presso le isole realtine (da "rivo alto"), all'interno della laguna e quindi più facilmente difendibile.
Le cronache parlano di un violento terremoto avvenuto nel 1106 che avrebbe causato l'inghiottimento di Metamauco da parte del mare. A tutt'oggi però, nonostante studi approfonditi e numerose ricerche effettuate nel mare circostante, di questo antico centro non si è trovato traccia.
Le supposizioni, le storie e le ipotesi che circolano attorno a questa Atlantide lagunare hanno finora soltanto alimentato la curiosità intorno a questa  leggenda.

venerdì 24 giugno 2011

La Bautta e la Moretta

Oggi strettamente legato all'occasione stagionale del Carnevale, l'uso della maschera, finalizzato al mantenimento dell'anonimato, un tempo rientrava nella vita quotidiana di Venezia. Un posto d'onore nella mitologia del Carnevale veneziano spetta alla bautta (pronuncia: "baùta"), presente già in diversi quadri di Longhi e di Guardi.
La bautta è da considerare maschera assolutamente originale di Venezia. Bianca, leggermente sorridente per l'ampia sporgenza destinata ad alterare la voce, la bautta  contrasta con il nero del tabarro (ampio mantello) e del tricorno (cappello a tre punte). L'etimologia più convincente del termine è quella che lo fa risalire al "bau", cioè l'uomo nero spauracchio dei bambini. Questo travestimento prevedeva un utilizzo unisex, e risultava particolarmente gradito alle signore dedite al gioco d'azzardo o ad appuntamenti notturni illeciti.
Quasi altrettanto celebre è la moretta, maschera che consiste in un volto nero ovoidale, destinata esclusivamente alle donne, le quali, trattenendola con la bocca grazie ad un morso posteriore, mantenevano l'anonimato e il silenzio. Si ritiene che l'imposizione del silenzio alle donne non fosse casuale...
La personalità certo svanisce dietro l'eccitante esperienza del mascheramento, ma la suo posto non ne sorge un'altra con relativo complesso di significati. L'anonimato e l'incognito garantiti dalle maschere sublimano le funzioni trasgressive e a fondo sessuale connesse con l'ambiguità della maschera. Da qui evidentemente l'immenso successo di queste maschere.

lunedì 23 maggio 2011

Bombardamento aereo a Venezia

Nella primavera dell’anno 1848 in Italia avvennero i famosi moti insurrezionali, e anche Venezia insorse contro l'occupante austriaco. Il 17 marzo il popolo riusciva a liberare Daniele Manin e Nicolò Tommaseo (arrestati per le loro idee anti-austriache) e qualche giorno dopo, guidati appunto dal Manin, i veneziani riprendevano possesso dell’Arsenale costringendo gli austriaci ad abbandonare la città. Daniele Manin veniva eletto presidente della Neorepubblica di San Marco, e subito Venezia venne assediata dagli austriaci.

Nel 1849 la città fu teatro del primo bombardamento aereo della storia, infatti il colonnello austriaco Uchatius organizzò un attacco alla città con una catena di palloni aerostatici che dovevano arrivare trasportati dal vento sopra le postazioni veneziane e sganciare degli ordigni esplosivi.
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Fortuna volle che i calcoli del vento non furono precisi e le correnti aeree portarono fuori obiettivo l'attacco, salutato in modo festoso dalla folla incuriosita dall'insolito spettacolo.

... e dopo poco più di un anno di assedio, durante il quale si era deciso di resistere ad ogni costo, nell’agosto del 1849 la Neorepubblica di San Marco venne piegata, più dalla fame e dal colera che dalle armi.

lunedì 16 maggio 2011

Il gobbo di Rialto

Nel campo antistante l'antica chiesa di San Giacomo di Rialto, vicino ad una delle colonne del Sotoportego della Sicurtà, c'è una scaletta in pietra sorretta da una figura marmorea, il cosiddetto "Gobbo di Rialto".
Il realtà il Gobbo non è affatto un gobbo, è semplicemente una figura curva e tesa nello sforzo di sostenere la scala, opera dello scultore Pietro da Salò. La struttura serviva per leggere i bandi, i proclami, le ordinanze e le condanne della Repubblica, in un punto tra i più frequentati della città: il mercato di Rialto. Qui infatti si recavano sia i patrizi e i mercanti per i loro affari, sia il popolo per fare acquisti, c'era quindi la sicurezza di una grande diffusione delle deliberazioni dello Stato.

Le cronache del tempo raccontano che la punizione per furto consisteva nell'essere portati in catene da San Marco a Rialto, proprio davanti al Gobbo, e frustati per la strada come monito. Una volta arrivati a Rialto, felici di aver scontato la pena, i malfattori baciavano il Gobbo, dolce meta dopo tanta sofferenza.
Questi episodi avvenivano così di frequente che, per evitare che il Gobbo diventasse una reliquia o un simbolo di liberazione, nel marzo 1545 il Senato fece porre, in una vicina colonna, due pietre, una con una croce e l'altra con l'effige di San Marco, che dovevano servire per il "bacio della liberazione".

(fonte: M.Brusegan)

lunedì 9 maggio 2011

Genesi della minigonna

Negli anni Sessanta del secolo scorso dilagò in tutto il mondo la moda della minigonna, scandalizzando i benpensanti, ma venendo poi assorbita nella normalità e accettata da tutti.
Sembra però che a Venezia, già nel Settecento, si usassero delle gonne molto corte. Ne abbiamo segnalazione dal poeta Angelo Maria Labia (1709-1755), sempre ironico fustigatore dei costumi del suo tempo, nella sua poesia La moda corrente, in cui descrive il modo di agghindarsi delle donne dell'epoca. Dopo essersi lamentato di come le veneziane andavano per via con il collo e le spalle nude, narra di come le signore portavano cotole e veste curte assai / e sfiamesanti veli sui cendai / calza bianca e mulete e gran cordele / ochio lascivo in ziro e seducente / questa in le done xe moda corrente.
Moda all'avanguardia, dunque, la minigonna esisteva già due secoli fa!