domenica 9 ottobre 2011

Tiepolo Giambattista, ragazzo di Castello

Una targa nell'appartata calle che costeggia l'alberato Viale Garibaldi ricorda i natali di un figlio prediletto di Castello, che chiuse i suoi giorni nel 1770 presso la corte di Spagna, tra le dorature e gli stucchi del Palazzo Reale che, ormai ultrasettantenne, era stato chiamato ad affrescare.
La venezianità a tutto tondo di Tiepolo è attestata tuttavia da una presenza costante, paragonabile solo a quella di Tintoretto, presso le chiese della città.
Un percorso sulle tracce di Tiepolo a Venezia non può prescindere da questi luoghi:
- Chiesa degli Scalzi: ospitava un affresco sul tema della Casa di Loreto, perduto in seguito ad un bombardamento austriaco nel 1915; nella Cappella del Redentore si può invece ancora apprezzare la monocromia del Cristo nell'orto degli ulivi (1732); di un Tiepolo meno maturo sopravvive la volta della cappella dedicata a Santa Teresa d'Avila, che è rappresentata con gli occhi bassi, in preghiera, non in estasi dunque
- Chiesa di San Stae: Martirio di San Bartolomeo (1722), opera di formazione, sotto l'influenza del Piazzetta, chiaroscuro drammatico
- Chiesa di San Polo: Apparizione della Vergine a San Giovanni Nepomuceno (1754), martire boemo del Trecento, canonizzato nel 1729; la pala venne commissionata all'artista dal re di Polonia Augusto III che aveva donato alla chiesa le reliquie del santo
- Chiesa della Fava: Educazione della Vergine (1732)
- Basilica di San Marco, sacrestia: Adorazione del Bambino (1732), intima e calda come la precedente; la pala però viene esposta solo a Natale
- Chiesa della Pietà: affresco al centro della navata Incoronazione della Vergine e Celebrazione della Musica (1755) e le Virtù teologali e David
- Chiesa di San Francesco della Vigna: decorazione della Cappella Sagredo
- Chiesa di Santa Maria dei Derelitti (Ospedaletto): ciclo degli Apostoli e il Sacrificio di Isacco (1724), ancora un violento chiaroscuro alla maniera del Piazzetta
- Chiesa dei Santi Apostoli: Comunione di Santa Lucia, con in primo piano i macabri segni del martirio, in forte contrasto con la luminosità dell'ambiente e la bellezza della santa
- Chiesa di Sant'Alvise: Incoronazione, Flagellazione e Salita al Calvario (1740), caratterizzati da una religiosità tragica concentrata sulla Passione di Gesù, che strapperà alla Enciclopedia Cattolica un raro riconoscimento: "In queste tele il Tiepolo lascia ogni ricerca di bellezza formale per attingere unicamente al senso drammatico dell'epopea di Cristo"
- Chiesa dei Gesuati (che sarebbe più corretto però chiamare dei Domenicani): nella quale Tiepolo lavorò nel 1737 affrescandone il soffitto e l'abside.

lunedì 3 ottobre 2011

Teatro Verde sull'Isola di San Giorgio Maggiore

Detta l'Isola dei Cipressi , San Giorgio Maggiore ospita un luogo singolare al quale si accede dalla Fondazione Giorgio Cini, penetrandovi idealmente attraverso una delle tre porte che danno accesso al convento le quali si scorgono osservando l'isola dalla riva opposta, secondo il progetto dell'architetto rinascimentale Giambattista Bregno (1508), sottostante il rilievo marmoreo di San Giorgio a cavallo.
Secondo il romanzo esoterico Hypnerotomachia Poliphili, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, il significato delle tre porte è, per il neofita, il seguente: la prima porta Gloria Dei, la seconda Mater Amoris, la terza Gloria Mundi.
Progettato nel 1952 da Luigi Vietti e Angelo Scattolin, il Teatro Verde è invece un'opera moderna caratterizzata da un esasperato classicismo, che se riprende la forma del teatro greco da una parte, dei teatri di "verzura" delle ville venete, assume dall'altra, in virtù delle gradinate di pietra e della corona di cipressi secolari, un tratto decisamente sepolcrale e funereo.
Caduto in disgrazia dopo memorabili rappresentazioni notturne di Romeo e Giulietta e della Carmen di Bizet, lo straordinario anfiteatro di 1500 posti, con palcoscenico di 56 metri sul fronte e 210 metri quadri complessivi, giace oggi in completo abbandono. Tuttavia gli alti spiriti che ancora aleggiano nell'atmosfera del Teatro Verde sono quelli di Gabriele D'Annunzio e di Eleonora Duse (le cui lettere sono conservate negli archivi della Fondazione Cini), in particolare riecheggiano ancora le rappresentazioni de La Nave e La Città morta (perché secondo certe indicazioni contenute nel romanzo Il Fuoco, la tragedia d'ambientazione archeologica si sarebbe configurata nella mente dell'autore durante una passeggiata meridiana per Venezia): "Entravano nel campo San Cassiano deserto sul suo rio livido, e la voce e i passi echeggiarono come in un circo di rupi, chiaramente, nel rombo che veniva dal Canal Grande come da un fiume...".
Il Teatro Verde riprende, nella cornice buia e priva di rumori esterni, la condizione notturna in cui ebbe a sprigionarsi dalla mano cieca di D'Annunzio, nell'inverno caliginoso del 1916, la più tenue e duratura fiammella del fantastico veneziano.

lunedì 26 settembre 2011

Streghe a Venezia

A parte qualche caso sporadico (come tale Francesco Barozzi che si considerava un mago), fatture, magie e stregonerie erano a Venezia ad esclusivo appannaggio delle donne, o loro attribuite dalla cultura dell'Inquisizione. Contrariamente alla tradizione, le streghe della Serenissima, o quelle che si ritenevano tali, non professavano culti e patti diabolici con malefizi mortali, sabba od orge demoniache, ma si limitavano per lo più a piccole magie e fatture "casalinghe" riguardanti la salute oppure i tormenti amorosi.
Le streghe veneziane non adoravano il demonio ma al massimo lo invocavano, pagandogli addirittura in anticipo i favori gettando delle monete e manciate di sale sul fuoco; l'unica raffigurazione diabolica che conoscevano era quella presente tra le carte dei Tarocchi.
A volte si ritrovavano presso il cimitero ebraico del Lido, luogo considerato carico di poteri occulti.
Si trattava in sostanza di una stregoneria spicciola, patrimonio dei ceti più poveri dai quali provenivano la maggioranza di queste donne, che applicavano antichi segreti e pratiche di dubbia efficacia. I segreti venivano rivelati di generazione in generazione nelle notti di Natale o in punto di morte e venivano poi usati come mezzo di sostentamento.
Alcune presunte streghe erano anche cortigiane: c'era la convinzione che sapessero fare fatture e incantesimi affinché gli uomini si innamorassero di loro.
Queste fattucchiere sarebbero rimaste anonime se il Sacro Tribunale dell'Inquisizione non si fosse accanito nella caccia alle streghe. Nel resto dell'Europa gli Inquisitori sfogavano le proprie frustrazioni su povere donne che venivano plagiate, sottoposte a torture e mandate al rogo. Per fortuna, data la particolarità della società veneziana, nessun rogo fu mai acceso nel territorio della Serenissima e le torture vennero applicate in pochissimi casi; questo anche perché il governo veneziano, sempre mal disposto nei confronti della Chiesa di Roma, aveva saputo, sottilmente e tra le quinte, conferire un indirizzo speciale alla questione.

(fonte: Brusegan)

giovedì 22 settembre 2011

Campo dell'Abbazia e Scuola della Misericordia

La Scuola della Misericordia nasce col nome di "Santa Maria in Valverde" (per via dell'antica presenza di orti e giardini nella zona) ed è tra le più antiche di Venezia, in quanto le prime notizie di un insediamento religioso risalgono all'anno 936, con l’erezione di una Abbazia e la creazione di un ospizio per pellegrini e bisognosi.
L'attuale edificio che si affaccia sul Campo dell'Abbazia risale invece al 1200, e coeva risulta la chiesa ad angolo (la cui facciata però venne rifatta nel Seicento). Già dopo due soli secoli la sede della Scuola risulta troppo piccola e viene deliberata la costruzione della Scuola Nuova, per opera del Sansovino, dall'altra parte del rio. La Scuola Nuova venne poi abbandonata con l'arrivo di Napoleone e utilizzata per gli usi i più disparati (oggi è sede espositiva).
Il Campo dell'Abbazia è un punto tra i più suggestivi del sestiere di Cannaregio, proteso come appare sull'incrocio di due rii, in modo da assumere l'aspetto di uno scalo fluviale o, nei pomeriggi invernali, porto delle nebbie.
Facco De Lagarda lo descrive così, in una sua poesia degli anni Quaranta:

Esco e già scende la sera
sull'Abbazia calda ancora di sole,
davanti al portale di quercia
guizzano in torneo le rondini.
Lungo il deserto canale degli orti
l'acqua si gonfia nell'alta marea,
disegna molli arabeschi,
s'increspa a un colpo improvviso di vento.
Sosto,
vicino al capitello degli addii.

lunedì 19 settembre 2011

Gli Squeri di Venezia

Gli squeri erano i cantieri per le barche, spazi più o meno grandi prospicienti un canale e degradanti verso l'acqua per poter agevolmente tirare in secco le imbarcazioni. Spesso hanno delle costruzioni alle spalle per poter lavorare al riparo dalle intemperie. Servono per la costruzione di barche di tutti i generi, comprese le gondole, ma anche per le loro riparazioni. Gli artigiani che vi lavorano vengono chiamati squeraròli, o maestri d'ascia, e provengono dalla categoria dei marangoni (falegnami).
L'esistenza degli squeri e dell'Arte degli Squeraroli era di fondamentale importanza per la Serenissima, in quanto lo sviluppo e la vita stessa della città dipendevano dall'acqua e dai suoi trasporti. La sede della loro Scuola era a San Trovaso, sotto la protezione di Santa Elisabetta, e proprio a San Trovaso esiste ancora un caratteristico squero per le gondole, meta di pittori, poeti e scrittori per il fascino che emana. Qui il tempo sembra essersi fermato: gli strumenti di lavoro sono quasi gli stessi che si usavano un tempo e l'odore della pece aleggia tra le gondole adagiate su un fianco, vicino alla casa che sembra uscita da una cartolina di montagna.
Un tempo gli squeri erano moltissimi, ora ne sono rimasti pochissimi; ve ne sono alcuni di pubblici, dove i cittadini possono tirare a secco le proprie barche per piccole riparazioni; sono dei semplici scivoli sull'acqua, a cielo aperto, e chi li usa si deve arrangiare.

lunedì 12 settembre 2011

Scala Contarini del Bovolo

Il Palazzo Contarini del Bovolo (XV secolo) è celebre per la splendida scala elicoidale esterna a forma di chiocciola (in veneziano: bovolo) che si innesta armonicamente alla facciata a loggiati sovrapposti. La scala risulta esser stata realizzata attorno al 1499 da Giovanni Candi. Dietro la cancellata sono visibili alcune vere da pozzo e una pietra tombale della vicina chiesa di San Paternian (abbattuta).
Lo scrittore veneziano Renato Pestriniero ha dedicato a questo insolito monumento il racconto Nodi, pubblicato per la prima volta nel 1981. Si tratta di un'interpretazione visionaria di notevole suggestione:
"Avevamo lasciato Campo Manin per inoltrarci nell'unico accesso alla corte, una fessura in ombra tra cataste di case antiche, occhiaie nere, bocche di cantine putrescenti, muri di mattoni corrosi dalla salsedine, e alla fine ecco la corte, piccola e raccolta, un pozzo formato da pareti di case sovrapposte, protuberanze, anfratti, un labirinto di volumi incastrati l'uno nell'altro nel corso dei secoli. La scala sorge lì. E' una spirale di gradini che si avvolge all'esterno di una torre cilindrica, un nastro orlato di trine marmoree, un capriccio architettonico.
Cominciai a salire aggirando il corpo cilindrico della costruzione sul quale si avvolge la scala. Sul lato esterno la serie ininterrotta di archi si apriva su un vuoto grigio. Ad ogni decina di gradini passavo accanto a una porta di legno simile a quella dalla quale ero uscito. Un numero così elevato di porte faceva prevedere una struttura interna ben strana. Sostai accanto ad una di esse. Filtravano suoni che non riuscivo ad interpretare, una sorta di scalpiccio, un mormorare proprio accanto all'uscio, eppure lontanissimo, passi soffici provenienti da un silenzio per immergersi in un altro silenzio.
Continuai a salire, ma quando ebbi completato un paio di volute e mi trovai nuovamente sulla verticale della corte, mi resi conto che nelle distanze c'era qualcosa di sbagliato..."

lunedì 5 settembre 2011

Il triangolo amoroso di George Sand a Venezia

Autrice di un reportage su Venezia pubblicato sulla "Revue de deux mondes", l'anticonformista scrittrice francese (1804-1876) lega il suo nome a quello della città per essere stata protagonista di un chiacchierato triangolo erotico. In breve alla fine del mese di gennaio 1834 George Sand si trova a Venezia, presso l'Hotel Danieli, in compagnia di un amante più giovane di lei di sei anni, ma già illustre nella Parigi letteraria: Alfred de Musset. Il poeta però è febbricitante. Viene chiamato un medico abituato a trattare con l'esigente clientela dell'albergo, tale Pietro Pagello.
Quando, dopo alcuni giorni, De Musset riprende coscienza dal delirio delle febbri e vede il medico, comprende immediatamente quanto è accaduto: il medico premuroso si è preso cura anche della donna del paziente.
Alle sue domande pressanti la Sand risponde negando tacciandolo addirittura di visionario. Intanto però la tresca prosegue senza pause, sfruttando persino, allorché la passione risulta incontenibile, i recessi inopinabili del movimentato Danieli.
Dunque tutto si svolge secondo il copione del classico triangolo borghese, e questo non depone a favore della scapigliata coppia francese, a parole sprezzante di ogni forma di compromesso. Dei tre quello che, per così dire, ne uscirebbe meglio sarebbe proprio Pagello (che in fondo fa il suo dovere di medico di stazione turistica, obbediente al capriccio dell'ospite), se non si fosse fatto convincere dalla donna (che riceve dalle mani di un ormai stremato de Musset) a seguirla a Parigi.
Accompagnato da una fama di stallone, il Pagello si improvvisa battitore di mediocri quadri che da buon veneziano aveva portato in valigia, per sicurezza, non si sa mai, nei convegni e presso i salotti in cui la scrittrice lo trascina. Subisce però lo smacco del contro-triangolo: troppo per un italiano! Meglio scomparire di scena ritornando al suo regno di medico mandato dalla provvidenza, in più cortese e belloccio: Venezia, il Danieli, i turisti pieni di fregole e acciacchi.
Ma al Danieli non c'è una targa che lo ricordi.

(Fonti: M. Brusegan / A. Scarsella / M. Vittoria)

giovedì 1 settembre 2011

Divertimenti veneziani

I luoghi prediletti dai veneziani per i loro divertimenti erano i casin, detti anche ridotti. Questi erano delle piccole case o soltanto delle stanze, dove i veneziani restavano fino all'alba per divertirsi giocando d'azzardo o intrattenendosi con delle cortigiane.
Tra i ridotti più importanti c'era quello aperto nel Palazzo Dandolo a San Moisè nel 1638, gestito dallo Stato, tanto celebre da essere chiamato semplicemente "Il Ridotto". Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un nobiluomo (i barnabotti) che teneva il banco con zecchini e ducati, in attesa dei giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera. La più usata era senz'altro la bauta, che permetteva di celare agevolmente la propria identità.
La fama del Ridotto si sparse in tutta l'Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia, accorrevano a visitarlo, fra tutti ricordiamo Federico IV re di Danimarca. Cliente fisso ne era Giacomo Casanova.
Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d'azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane o, i più disperati, anche della moglie! Una delle regole del Ridotto era quello di giocare in silenzio: interi patrimoni cambiavano proprietà, arricchendo qualcuno e riducendo sul lastrico qualcun altro, nell'assoluto silenzio.
Negli ultimi anni della Repubblica si contavano in città 136 casin, tra pubblici e privati. Alcuni casin erano dei veri e propri postriboli, con letti eleganti, specchi e vasche da bagno in marmo, ma non tutti erano luoghi di perdizione, ve ne erano molti con accademie musicali, letture di poesie o semplici feste da ballo; ricordiamo ad esempio il Casin degli Spiriti presso Palazzo Contarini dal Zaffo, dove si svolgevano incontri letterari.

domenica 21 agosto 2011

Ponte delle Tette

Il Ponte delle Tette si trova a San Cassiano, nella zona detta delle Carampane. La storia di questo nome curioso è molto semplice. Vicino a Rialto, le Carampane era una di quelle aree di Venezia nelle quali le prostitute erano obbligate a concentrarsi per disposizione delle leggi sull'ordine pubblico.
Per attirare la clientela, esse sedevano sulle finestre a seno nudo e con le gambe penzoloni per mostrare tutte le loro grazie, o ancor di più, stavano completamente nude davanti alle finestre: il tutto proprio sopra il ponte in questione.
Si narra che potessero stare in questi atteggiamenti grazie ad un'ordinanza del XV secolo che, addirittura, le incoraggiava a mostrarsi per richiamare clienti. Questo per distogliere la popolazione maschile da un'ondata di omosessualità che era diventata quasi un problema di stato. Si ritrovano infatti, tra i fascicoli dei processi più famosi, molti casi contro omosessuali o per violenza "contro natura". Ad esempio tale Francesco Cercato fu impiccato per sodomia tra le colonne della Piazzetta San Marco nel 1480, e tale Francesco Fabrizio, prete e poeta, fu decapitato e bruciato nel 1545 per il "vizio inenarrabile". Comunque sia, sembra che l'omosessualità fosse molto diffusa nella Venezia del Cinquecento, tanto da indurre le prostitute, nel 1511, ad inviare una supplica al procuratore Antonio Contarini affinché facesse qualcosa in merito, perché sembrava non avessero più clienti.
Forse però la vera ragione della loro crisi economica era un'altra: nel 1509 a Venezia vi erano 11.654 cortigiane censite (su una popolazione di 150.000 abitanti...), con tale abbondanza di offerta sembra logico pensare che i guadagni pro-capite calassero di molto!

mercoledì 10 agosto 2011

Simbolismo dell'acqua

"Il forestiero che arriva a Venezia dal rumore del mondo - scrive Marc Bloch - approda in una specie di liquido amniotico del silenzio", "L'acqua di Venezia - aggiunge Dominique Fernandez - non è acqua limpida: è consistente, sostanziale, prenatale, plasmatica". Ora il viaggio veneziano corrisponderebbe, secondo questa linea di pensiero al ritorno al grembo materno. Qualcuno ha persino collegato all'immagine del seno di donna, la struttura topografica e le numerose cupole fluttuanti nel cielo.
Loredana Gambuzzi, psicologa junghiana, campionando delle testimonianze di "genti disperse" trapiantate a Venezia, ha reso attendibile quest'ipotesi affascinante, che rilancia il tratto iniziatico originario di ogni grande insediamento urbano, non solo di Venezia, con la differenza che a Venezia, come grande isola pedonale, labirintica e difesa dall'acqua, esso sarebbe ancora direttamente percepibile.
Recenti teorie psicanalitiche riconoscono nelle acque di Venezia la capacità di portare a galla la nostra vera natura, spiegando pertanto il così vasto ventaglio di emozioni diverse che essa suscita; in pratica, ognuno vede in Venezia ciò che è lui stesso.
Venezia dunque assume la veste di iniziatrice, della Grande Madre che riceve l'iniziato e attraverso i suoi labirinti lo libera dalle strettoie della coscienza raziocinante, facendo riaffiorare l'energia della libido primordiale.
Occorre inoltre tener conto di quanto ricorda Enrico Raffi, scrittore della scuola di Alberto Moravia (che aveva pure lui una casa a Venezia, presso la Basilica della Salute): "Sono state le acque a salvare Venezia, quelle acque che dovrebbero infradiciare i ponti, ma che in questo caso sono più simili a quelle a cui dovette la vita il piccolo Mosè". Si analizzi questa frase alla luce della persistenza del mito biblico nel mito di Venezia: Mosè salvato dalle acque separerà le acque, come si auspicherebbe, per la salvezza della città, separare le acque del mare da quelle della laguna con una macchina dal nome "Mose".
Non a caso l'episodio della salvezza di Mosè dalle acque è stato affrontato anche da Tintoretto e Veronese, i quali collocano l'episodio biblico nel contesto di una sorta di gineceo. Acquaticità e femminilità sono dunque assunti come motivi convergenti e indissolubili.

mercoledì 20 luglio 2011

Isola Monte dell'Oro

Questo piccolo isolotto deve il suo suggestivo nome ad un'antica leggenda che lo vuole depositario, nelle sue viscere, del tesoro di Attila. Sembra infatti che gli Unni, inseguendo gli abitanti di Altino, che cercavano rifugio nella laguna di Venezia, fossero finiti impantanati con i loro pesanti carri in queste insidiose barene. Proprio lì, il più pesante di questi carri, carico del bottino di guerra e, secondo la leggenda, dello stesso arco di Attila, finì inghiottito nel fango.
Molti pescatori narrano che di notte si possono ancora vedere gli spiriti degli Unni che vigilano sul tesoro; tesoro ritenuto maledetto perché chiunque provò a cercarlo morì di morte violenta.
Data la posizione strategica, l'isola venne utilizzata per ricoprire un ruolo nel sistema difensivo ottocentesco della laguna. Vi si costruì una postazione d'artiglieria con un presidio di una cinquantina di militari.
Oggi l'isola si presenta come un dosso dalla forma tondeggiante con alle spalle la Palude della Rosa, e del tutto spoglia. Non resta che la suggestione del nome, l'affascinante vista sul paesaggio lagunare ed il piacere di cogliere qualche mora selvatica in estate sognando tesori nascosti.

mercoledì 13 luglio 2011

"Questa in breve la storia di una città che per costruirla furono usati non solo il legno e la pietra ma anche l'acqua e il vento e la nebbia. Come conseguenza, essa non poteva non racchiudere in sé una componente misterico-fantastica tale da collocarsi su una dimensione al di là del concreto, alla quale è impossibile accedere senza chiavi di interpretazione adatte"

(Renato Pestriniero)

lunedì 11 luglio 2011

Storia della cucina veneziana

Dopo il successo dei percorsi musicali, L'altra Venezia presenta un nuovo itinerario tematico: Storia della cucina veneziana.
Si tratta di un percorso a piedi per le calli di Venezia alla ricerca delle tracce della cultura gastronomica della città, la quale è, anch'essa, tutt'altro che scontata! Partendo dalle primissime ricette lagunari risalenti ai tempi in cui Venezia era solo una delle province di Bisanzio, passando per il tripudio delle spezie portate dai commerci con il Levante, attraverso una serie vertiginosa di contaminazioni straniere, si arriva fino alla cucina dei giorni nostri, o quantomeno di ciò che ne sopravvive.
Profumi esotici, ricette bizzarre e curiose abitudini a tavola, saranno narrate per scoprire anche questo lato affascinante della cultura veneziana, mai abbastanza disvelata, e che rischia di scomparire travolta dalla globalizzazione imperante delle pizzette e del cibo surgelato.
Durante il percorso sono previste delle tappe in alcuni bacari (tipici locali veneziani) nei quali sarà possibile degustare i celebri cicchetti (piccoli assaggi) accompagnati da un'ombra di vino.

Il tour dura circa tre ore e può essere abbinato ad una cena privata in una casa veneziana.

Per info e prenotazioni: info@laltravenezia.it

venerdì 8 luglio 2011

La sindrome di Baron Corvo

Il problema della casa ricorre nella tormentata esperienza di Frederik Rolfe (Baron Corvo). Considerato a distanza di tempo come la cattiva coscienza della puritana colonia anglosassone della Venezia fin de siècle, Corvo fu il primo ad ammettere di essersi stabilito a Venezia senza alibi, pure tra tanti diplomatici, accademici, borsisti, etc. Ma a caro prezzo. In verità il suo romanzo autobiografico è un libro di protesta, l'autentica e unica difesa delle "genti disperse".
"Venezia, serenamente difesa dalla sua laguna, non è città dove Lazzaro possa nascondere le sue piaghe... Dio dammi una casa!".
Inutile quindi cercare una targa che ricordi la dimora veneziana di Baron Corvo , giacché viveva "baraccato" in una vecchia gondola; barone illustre e letterato, naufrago volontario a Venezia.
In un suo racconto Renato Pestriniero ha ricostruito magistralmente il processo di scelta della marginalità e il conseguente adattamento alle condizioni atipiche della città di un barbone che spesso è uno scomparso a Venezia: "E così,  quando l'alba sommerse un altro ultimo giorno di Carnevale, non presi il solito aereo per Milano. Non potevo più vivere in un mondo che non sentivo mio, anche se si trattava del mondo vero, quello che mi assicurava una vita brillante. Dovetti fare una scelta. Da una grossa borsa sportiva ricavai un contenitore che incastrai nello scheletro di una vecchia carrozzina. Ci misi la maschera e pochi altri oggetti, distrussi ogni documento di identificazione. Per il mondo svanii. Tutto il mio mondo materiale è in questo carrello al quale ho aggiunto un paio di piccole ruote per superare facilmente gli oltre quattrocento ponti che scavalcano i canali".


(Fonte: Brusegan)

mercoledì 6 luglio 2011

«Venezia splende come una bella donna. Non ha bisogno di essere illuminata perché lei stessa emana luce... Ho trattato quella stupenda città come un amore, mi ricorda la parte più romantica che è in ognuno di noi.»
(Marcello Gatti)

lunedì 4 luglio 2011

Atlantide a Venezia

Anche Venezia ha la sua Atlantide: si tratta di Metamauco (Malamocco). Verso l'estremità sud dell'isola del Lido c'è oggi una borgata, Malamocco, in bilico tra mare e laguna, che ha ereditato il nome dell'antichissima Metamauco, culla della storia della Serenissima.
Metamauco venne probabilmente fondata dai padovani in fuga dalle invasioni barbariche nel VI secolo, quindi divenne sede del Governo veneziano negli anni dal 742 all'810, quando in seguito all'assalto dei Franchi guidati da Pipino, figlio di Carlo Magno, il doge Angelo Partecipazio decise di trasferire la sede ducale presso le isole realtine (da "rivo alto"), all'interno della laguna e quindi più facilmente difendibile.
Le cronache parlano di un violento terremoto avvenuto nel 1106 che avrebbe causato l'inghiottimento di Metamauco da parte del mare. A tutt'oggi però, nonostante studi approfonditi e numerose ricerche effettuate nel mare circostante, di questo antico centro non si è trovato traccia.
Le supposizioni, le storie e le ipotesi che circolano attorno a questa Atlantide lagunare hanno finora soltanto alimentato la curiosità intorno a questa  leggenda.

venerdì 1 luglio 2011

"I gà un cuor che no xe suo"
(Dicesi di quelle persone talmente altruiste da anteporre i desideri del cuore degli altri a quelli del proprio)

venerdì 24 giugno 2011

La Bautta e la Moretta

Oggi strettamente legato all'occasione stagionale del Carnevale, l'uso della maschera, finalizzato al mantenimento dell'anonimato, un tempo rientrava nella vita quotidiana di Venezia. Un posto d'onore nella mitologia del Carnevale veneziano spetta alla bautta (pronuncia: "baùta"), presente già in diversi quadri di Longhi e di Guardi.
La bautta è da considerare maschera assolutamente originale di Venezia. Bianca, leggermente sorridente per l'ampia sporgenza destinata ad alterare la voce, la bautta  contrasta con il nero del tabarro (ampio mantello) e del tricorno (cappello a tre punte). L'etimologia più convincente del termine è quella che lo fa risalire al "bau", cioè l'uomo nero spauracchio dei bambini. Questo travestimento prevedeva un utilizzo unisex, e risultava particolarmente gradito alle signore dedite al gioco d'azzardo o ad appuntamenti notturni illeciti.
Quasi altrettanto celebre è la moretta, maschera che consiste in un volto nero ovoidale, destinata esclusivamente alle donne, le quali, trattenendola con la bocca grazie ad un morso posteriore, mantenevano l'anonimato e il silenzio. Si ritiene che l'imposizione del silenzio alle donne non fosse casuale...
La personalità certo svanisce dietro l'eccitante esperienza del mascheramento, ma la suo posto non ne sorge un'altra con relativo complesso di significati. L'anonimato e l'incognito garantiti dalle maschere sublimano le funzioni trasgressive e a fondo sessuale connesse con l'ambiguità della maschera. Da qui evidentemente l'immenso successo di queste maschere.

giovedì 16 giugno 2011

"Andar col dadrio sul butiro"
("Andare col sedere sul burro" - Dicesi quando tutto fila via liscio)

lunedì 13 giugno 2011

Quando per un solo voto Venezia non emigrò a Costantinopoli

Pompeo Molmenti nella sua opera La storia di Venezia nella vita privata narra un fatto poco conosciuto. Agli inizi del Duecento sembra che tra i componenti del Maggior Consiglio si discutesse se fosse il caso di trasferire la sede del governo veneziano altrove, per via delle difficoltà oggettive nel vivere in una città costruita su una laguna fangosa, soprattutto alla luce di un futuro ampliamento della città che all'epoca era proiettata verso una grande rinomanza politica e commerciale.
L'occasione si presentò nel 1204 quando con la quarta crociata Venezia pose il vessillo di San Marco sulle torri imperiali di Bisanzio.  Fu lo stesso doge Pietro Ziani che espose in Maggior Consiglio l'ipotesi di trasferire la capitale proprio a Bisanzio, illustrando come la laguna di Venezia fosse povera di risorse e non ci fosse spazio per ampliare la città stessa, per non parlare del continuo pericolo d'inondazione, mentre Costantinopoli era un magnifico paese dotato di tutte le grazie e i doni di Dio.
Angelo Falier, membro di una delle più antiche famiglie veneziane rispose al doge Ziani che tra quelle paludi erano sepolti i loro padri, e che l'asperità e le difficoltà di quei luoghi erano stati la causa stessa della forza dei veneziani.
Si mise quindi al ballottaggio la proposta, e per un solo voto contrario non si aderì alla proposta del trasferimento delle istituzioni veneziane a Bisanzio!

In realtà non c'è traccia alcuna nei documenti storici di questo avvenimento narrato da Molmenti, e il racconto è verosimilmente una leggenda, ma come si sa, dietro ad ogni leggenda c'è sempre un fondo di verità...

venerdì 10 giugno 2011

"Vivere a Venezia significa girare portandosi addosso la propria faccia per ciò che è veramente: un luogo pubblico"
(Tiziano Scarpa)

giovedì 9 giugno 2011

Marin Sanudo e le cronache veneziane

Senatore della Repubblica Serenissima e storiografo, Marin Sanudo nacque e mori a Venezia (1466-1543). Abitò nel sestiere di Santa Croce, sulla Fondamenta del Megio (cioè del miglio, per via del grande magazzino ivi presente).
Fu un importante cronachista della vita veneziana, che descrisse accuratamente in ben 58 volumi. Si occupò di vicende politiche, economiche e militari, ma anche quotidiane e di costume dell'epoca.
I volumi, che vennero pubblicati col titolo di Diarii ed erano composti in lingua veneziana, sono tutt'oggi una fonte inesauribile di notizie per qualunque studioso di storia veneziana, ma anche un semplice lettore vi può trovare innumerevoli particolari e curiosità. La sua scrittura è semplice e diretta, e priva di retorica alcuna.
Marin Sanudo fu anche autore di altre imprese letterarie: Le vite dei Dogi, Itinerario per la terraferma veneziana, De situ et magistratibus urbis Venetae, anch'esse fonti notevoli di informazioni.
Egli possedeva inoltre un'importante biblioteca privata di opere manoscritte e a stampa (tra cui le Cronache di Altino e alcune opere di Poliziano ed Ovidio edite da Aldo Manuzio), molto ammirata dai sui contemporanei, che purtroppo però è andata dispersa con i saccheggi napoleonici.
Nel 1531 il Senato gli concederà un vitalizio di 150 ducati l'anno come riconoscimento dell'alto valore della sua opera.

mercoledì 8 giugno 2011

"Le ciacole dura tre dì"
(Le chiacchiere durano soltanto tre giorni, poi svaniscono perché si dimentica o perché ormai niente più scandalizza davvero...)

lunedì 6 giugno 2011

Gli altari di San Giacomo di Rialto

Il legame tra la Chiesa di San Giacometto e il Mercato di Rialto è sottolineato dalla presenza, al suo interno, di molte Scuole di Mestiere ospitate presso i suoi altari.
L'altare maggiore fu sede fino alla fine del 1400 della Scuola dei Compravendipesce, trasferitasi poi ai Carmini. L'attività dei compravendipesce poteva essere esercitata solo dai pescatori di San Nicolò dei Mendicoli e di Poveglia, con limitazioni ben definite: dovevano essere stati pescatori per almeno vent'anni e dovevano aver raggiunto i cinquant'anni di età.
Lo stesso altare ospitò poi la Scuola dei Casaroli, cioè i venditori di formaggi, e la Scuola dei Ternieri, venditori di olio alimentare; la statua di San Giacomo, protettore di entrambe le confraternite, che decora l'altare è opera di Alessandro Vittoria.
L'altare a destra era sede della Scuola dei Garbeladori, misuratori e vagliatori di cereali e legumi. L'origine della Scuola sembra essere piuttosto antica, forse nella prima metà del Duecento. Un "misurador" appare in uno dei capitelli di Palazzo Ducale.
L'altare a sinistra apparteneva alla Scuola degli Oresi, gli orefici. L'altare è impreziosito dalla statua di S.Antonio Abate, patrono della Scuola, e da angeli, tutte opere eseguite in bronzo da Girolamo Campagna agli inizi del Seicento.
Gli orefici veneziani erano abilissimi nella tecnica della filigrana, detta opus veneciarum, nell'eseguire catenelle a maglia d'oro minutissime, e nel taglio dei diamanti.
Artisti celebri, come Alessandro Vittoria, furono anche abili orefici, da ricordare, ad esempio, la rilegatura in argento sbalzato, cesellato e dorato del Breviario Grimani, custodito nella Biblioteca Marciana.

mercoledì 1 giugno 2011

"In mancanza de granzi xe bone anca le sate"
("In mancanza di granchi sono buone anche le zampe")

lunedì 30 maggio 2011

Così Estrella salvò Venezia

Nell'anno 810, la sede del governo veneziano venne trasferita da Malamocco a Rivoalto, a causa della minaccia di invasione dell'esercito franco guidato da Pipino, figlio di Carlo Magno. Pipino fece costruire una sorta di diga per poter assalire meglio la città, così Estrella, figlia del doge Angelo Partecipazio, si fece condurre in gondola dal Re franco per tentare di convincerlo a firmare un armistizio.
La bella giovane, soprannominata la "rosa di Venezia", fu accolta da Pipino, il quale però non fu minimamente influenzato dalla bellezza della ragazza e rifiutò ogni ipotesi di pace o di tregua. Ma in realtà il compito di Estrella era semplicemente di far perdere tempo al Re, giusto il tempo necessario per far crescere la marea in laguna, così quando Estrella tornò indietro, l'acqua aveva nel frattempo completamente sommerso la diga.
In questo modo l'esercito franco fu costretto a misurarsi con quello veneziano in una battaglia navale, invece che campale, i quali, conoscendo perfettamente ogni angolo della laguna, le velme, i bassi fondali e le correnti, a bordo delle loro agili imbarcazioni ottennero un clamoroso successo, sconfiggendo Re Pipino e costringendolo a desistere dal suo obiettivo.
Il finale per Estrella fu però tragico. Ella venne festeggiata a Venezia per aver così astutamente ingannato il figlio di Carlo Magno, ma mentre la sua gondola stava percorrendo il Canal Grande una grossa pietra cadde proprio sulla sua imbarcazione, facendole perdere l'equilibrio. La bella rosa di Venezia finì in acqua e scomparve sul fondo, proprio nel punto in cui secoli dopo sorgerà il Ponte di Rialto, e vano fu ogni tentativo di salvarla.

venerdì 27 maggio 2011

"In viaggio decisi che Venezia sarebbe stata la mia patria: l'avevo sempre amata più di ogni altro posto su questa terra e sentii che lì solo sarei stata felice"
(Peggy Guggenheim)

mercoledì 25 maggio 2011

Dolor

Tasi cuor mio
per piasser,
par che ti vol sofrir
par tuto el mondo,
pensa par ti,
stropite i oci,
stropite e recie,
tasi cuor mio
per piasser,
no sta batter
in 'sta maniera,
me manca el fià.

(Renata Sopracordevole Lanzi)

lunedì 23 maggio 2011

Bombardamento aereo a Venezia

Nella primavera dell’anno 1848 in Italia avvennero i famosi moti insurrezionali, e anche Venezia insorse contro l'occupante austriaco. Il 17 marzo il popolo riusciva a liberare Daniele Manin e Nicolò Tommaseo (arrestati per le loro idee anti-austriache) e qualche giorno dopo, guidati appunto dal Manin, i veneziani riprendevano possesso dell’Arsenale costringendo gli austriaci ad abbandonare la città. Daniele Manin veniva eletto presidente della Neorepubblica di San Marco, e subito Venezia venne assediata dagli austriaci.

Nel 1849 la città fu teatro del primo bombardamento aereo della storia, infatti il colonnello austriaco Uchatius organizzò un attacco alla città con una catena di palloni aerostatici che dovevano arrivare trasportati dal vento sopra le postazioni veneziane e sganciare degli ordigni esplosivi.
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Fortuna volle che i calcoli del vento non furono precisi e le correnti aeree portarono fuori obiettivo l'attacco, salutato in modo festoso dalla folla incuriosita dall'insolito spettacolo.

... e dopo poco più di un anno di assedio, durante il quale si era deciso di resistere ad ogni costo, nell’agosto del 1849 la Neorepubblica di San Marco venne piegata, più dalla fame e dal colera che dalle armi.

venerdì 20 maggio 2011

Cinema a Venezia

I fratelli Lumière (inventori del proiettore cinematografico nel 1895, che paradossalmente essi stessi definirono "un'invenzione senza futuro"!), diedero pubblica dimostrazione della loro creazione presso il Teatro Minerva (ex Teatro San Moisè), sito in Corte del Teatro, 2243, San Marco.
La prima proiezione, strettamente per invito, avvenne il 9 luglio 1896 suscitando grande entusiasmo. Le proiezioni si succedettero per circa due mesi. Il 22 agosto vennero proiettati alcuni filmati girati proprio a Venezia intitolati: I piccioni di Venezia (...), I vaporetti a Rialto e L'approdo di una gondola a San Zanipolo.
Ma la grande novità veneziana fu la prima "carrellata" (filmato in movimento); infatti i Lumière sistemarono una cinepresa a bordo di un vaporetto che scivolando sull'acqua, permise una ripresa in movimento del Canal Grande e dei suoi palazzi.

Il nome proposto inizialmente per il cinematografo da Lumière padre sarebbe stato Domitor, contrazione del latino dominator, che rispecchia i sogni e le suggestioni di onnipotenza del positivismo. Guardare la vita quotidiana degli altri e salvarla nel tempo era una sorta di potere di registrazione delle cose, anche di vittoria sulla morte, che trovava eco anche nella letteratura contemporanea: nel romanzo Il castello dei Carpazi del 1892 Jules Verne descriveva un inventore che riusciva a riprodurre le immagini e la voce di una cantante della quale era innamorato per averla  per sempre con sé.
Inoltre assistere alle proiezioni cinematografiche gratificava lo spettatore nel vedere senza essere visto, come un "dominatore" del mondo, appunto: lo spettatore si sente inconsciamente superiore ai personaggi ed è gratificato dal presenziare le loro vicende. Non a caso la visione frontale del cinematografo era quella che nel teatro era riservata al principe ed alle personalità più importanti.

giovedì 19 maggio 2011

"A Venezia ognuno è comunque un commerciante"
(Petrarca)

mercoledì 18 maggio 2011

"Xe passà sant'Isepo co' la so' piala"
("E' passato San Giuseppe con la sua pialla" - dicesi di donna con poco seno)

lunedì 16 maggio 2011

Il gobbo di Rialto

Nel campo antistante l'antica chiesa di San Giacomo di Rialto, vicino ad una delle colonne del Sotoportego della Sicurtà, c'è una scaletta in pietra sorretta da una figura marmorea, il cosiddetto "Gobbo di Rialto".
Il realtà il Gobbo non è affatto un gobbo, è semplicemente una figura curva e tesa nello sforzo di sostenere la scala, opera dello scultore Pietro da Salò. La struttura serviva per leggere i bandi, i proclami, le ordinanze e le condanne della Repubblica, in un punto tra i più frequentati della città: il mercato di Rialto. Qui infatti si recavano sia i patrizi e i mercanti per i loro affari, sia il popolo per fare acquisti, c'era quindi la sicurezza di una grande diffusione delle deliberazioni dello Stato.

Le cronache del tempo raccontano che la punizione per furto consisteva nell'essere portati in catene da San Marco a Rialto, proprio davanti al Gobbo, e frustati per la strada come monito. Una volta arrivati a Rialto, felici di aver scontato la pena, i malfattori baciavano il Gobbo, dolce meta dopo tanta sofferenza.
Questi episodi avvenivano così di frequente che, per evitare che il Gobbo diventasse una reliquia o un simbolo di liberazione, nel marzo 1545 il Senato fece porre, in una vicina colonna, due pietre, una con una croce e l'altra con l'effige di San Marco, che dovevano servire per il "bacio della liberazione".

(fonte: M.Brusegan)

sabato 14 maggio 2011

"Essar sempre indrio come la coa del can"
(dicesi di colui che non porta mai a termine ciò che inizia o di quelle persone un poco lente a capire...)

lunedì 9 maggio 2011

Genesi della minigonna

Negli anni Sessanta del secolo scorso dilagò in tutto il mondo la moda della minigonna, scandalizzando i benpensanti, ma venendo poi assorbita nella normalità e accettata da tutti.
Sembra però che a Venezia, già nel Settecento, si usassero delle gonne molto corte. Ne abbiamo segnalazione dal poeta Angelo Maria Labia (1709-1755), sempre ironico fustigatore dei costumi del suo tempo, nella sua poesia La moda corrente, in cui descrive il modo di agghindarsi delle donne dell'epoca. Dopo essersi lamentato di come le veneziane andavano per via con il collo e le spalle nude, narra di come le signore portavano cotole e veste curte assai / e sfiamesanti veli sui cendai / calza bianca e mulete e gran cordele / ochio lascivo in ziro e seducente / questa in le done xe moda corrente.
Moda all'avanguardia, dunque, la minigonna esisteva già due secoli fa!

venerdì 6 maggio 2011

Marangoni e intagliatori a Venezia

I marangoni a Venezia erano i falegnami, tra tutti gli artigiani forse i più importanti.
Il termine "marangone" deriva da quello dell'uccello lacustre, "smergo" (dal latino mergere: tuffare), che per nutrirsi si tuffa nell'acqua, proprio come facevano i primi falegnami per sistemare le carene delle galee, per cui, in seguito ad una serie di successivi variazioni, smergo-mergo-marango, si arriva appunto a marangone.
Questa categoria di lavoratori era così suddivisa:
- marangoni da case: realizzavano le parti in legno per gli edifici e oggetti per uso domestico
- marangoni da noghera: fabbricavano mobili
- marangoni da soazze: eseguivano cornici
- marangoni da nave: lavoravano all'Arsenale
Da non confondere con i marangoni erano gli intagliatori.
Questi lavoravano il legno d'intaglio e spesso lo rifinivano con una decorazione colorata o dorata. Alcuni di essi erano talmente abili da imitare perfettamente stoffe, cuoio e metallo.
Questa nobile arte si è tramandata ancora fino ai giorni nostri. In città il più celebre di questi maestri è forse Livio de Marchi, eccentrico artista-scultore che si contraddistingue non solo per la tecnica ma soprattutto per l'estro creativo non comune.

(Fonte: Filippi Editore)

giovedì 5 maggio 2011

"Tuti semo boni a schissar le nose co le man dei altri"
("Tutti siamo capaci a schiacciare le noci con le mani degli altri")

lunedì 2 maggio 2011

Banchetti di Stato della Repubblica Serenissima

Nel Rinascimento la questione della tavola è centrale sotto il profilo politico, essa infatti travalica il semplice atto del mangiare e diventa una manifestazione di prestigio, inscenata per impressionare l'ospite, per far comprendere la vastità delle sue ricchezze, per aumentare il potere di chi organizza il convivio. Il banchetto quindi è scenografia, coreografia, finzione, spettacolo. E' arte raffinata che unisce intrattenimento, cibi ricercati, preparazione della tavola, per appagare allo stesso tempo occhio, palato e mente.
In particolare nelle festività pubbliche, Venezia costruisce un cerimoniale specifico studiato nei minimi dettagli. I banchetti tradizionali offerti dal doge nell'arco dell'anno sono cinque. Innanzitutto, San Marco, festeggiato il 25 aprile con un menù rituale costituito da una tenera primizia che il principe ha il privilegio di assaggiare per primo: si tratta dei piselli, presentati sotto forma di risi e bisi (riso con piselli) o di bisi con persuto (piselli con prosciutto). Quaranta giorni dopo Pasqua cade la Sensa (Ascensione), che si apriva con un antipasto di zuche confete (zucca caramellata) accompagnate da malvasia muschatella (vino greco dolce).
Queste due festività vengono onorate ancora oggi a Venezia, e da qualche anno sono tornati in auge i risi e bisi preparati alla vecchia maniera. Si è completamente persa traccia invece delle altre tre ricorrenze: Santi Vito e Modesto, il 15 giugno, di cui rimane il ricordo di un "pranzo bellissimo di pessi" offerto dal doge Andrea Gritti nel 1532; San Girolamo, il 30 settembre, nel corso della quale venivano conferiti ai patrizi alcuni importanti uffici della Repubblica; mentre sul quinto banchetto c'è incertezza: Giustina Michiel Renier nel suo libro "Origini delle feste veneziane" parla di Santo Stefano, Giuseppe Tassini di San Lorenzo.
Oltre a questi banchetti sono da ricordare i ricevimenti speciali in occasione di visite di sovrani e di ambasciatori, presso il Palazzo Ducale. Il tavolo preparato per queste occasioni è di forma ovale e gli invitati appartengono ai vari rami del governo e del corpo diplomatico, ma proprio per dimostrare che ci troviamo in una repubblica, il popolo non viene privato del diritto di assistere come spettatore a queste mense. I cittadini però si ritirano dopo il primo servizio: un usciere scuote le chiavi e quello è il tacito segnale della partenza, mentre al loro posto subentrano i musici. Terminato il banchetto, gli scudieri di palazzo presentano ad ogni convitato un paniere di dolci, mentre il doge si alza, si commiata e si ritira negli appartamenti privati.
Una curiosità: all'epoca era abitudine servirsi di posate personali, portate da casa, per praticità o per paura di essere avvelenati. A tavola, ambasciatori e personalità sono serviti dal proprio domestico, incaricato di riportare a casa la cassetta contenente posate e bicchiere facenti parte del coperto. Il nome deriva dal tovagliolo messo su tutto, e spiega l'origine della voce che ancora oggi troviamo nel conto del ristorante.

(fonte: C.Coco)

venerdì 29 aprile 2011

"L'incanto speciale della città mi ha avvinto. Tutto il giorno ho vagato per Venezia in estasi. Ogni giorno scopro nuove delizie... Ma ciò che più di tutto mi è piaciuto qui è la quiete, l'assenza del baccano cittadino. Di sera alla luce lunare, sedersi alla finestra aperta, guardare Santa Maria della Salute, che si trova proprio di fronte alle nostre finestre, e a sinistra la laguna, è semplicemente un incanto"
(Tchaikovsky, 1877)

martedì 26 aprile 2011

Il Bucintoro, splendido naviglio dogale

Scarse sono le notizie sulla nascita e sull'etimologia di questa sontuosa imbarcazione, come pure è incerto il numero esatto dei Bucintoro che si sono avvicendati nei secoli.
Varie sono le supposizioni sull'origine del nome, ma la più attendibile si rifà al nome di un'antica imbarcazione detta burchio o burcio, che per via delle decorazioni in oro, divenne burcio in oro, e infine bucintoro.
E' molto probabile che nei primi anni di storia di Venezia, il doge usasse una semplice galea sottile, col passare degli anni e l'accrescersi della potenza della Repubblica, si desiderò dare maggiore fasto all'imbarcazione dogale. Il primo Bucintoro di cui si ha notizia certa è quello riprodotto all'interno dell'Arsenale nella pianta cinquecentesca eseguita da Jacopo De' Barbari, la cui data di costruzione si suppone fosse nei primi anni del Trecento. Certo è che all'epoca del De' Barbari, il naviglio era alquanto "anziano", si diede infatti ordine di costruirne uno nuovo. Abbiamo così notizia di un secondo Bucintoro, più volte raffigurato nelle tele di numerosi pittori. Questo naviglio, a differenza del primo, era impreziosito da sculture lignee.
Ma già all'inizio del Seicento si pensò alla costruzione di un terzo Bucintoro, il quale costò ben settantamila ducati (l'equivalente a circa due milioni di euro di oggi) e fu inaugurato alla Festa della Sensa del 10 maggio 1606.
L'ultimo Bucintoro fece la sua comparsa nel 1728, riccamente adornato di foglie d'oro zecchino, e sarà immortalato nei dipinti di Canaletto e di Guardi.
Il 9 gennaio 1798 i soldati francesi entrati in Arsenale, asportarono dal Bucintoro tutte le decorazioni, gli intagli, e le parti dorate, poi portarono l'imbarcazione a San Giorgio Maggiore, sul sagrato della chiesa, e la bruciarono.

(Fonte: M.C. Bizio)

venerdì 22 aprile 2011

Cortigiane e meretrici a Venezia

Fin dal 1360 nei pressi della Chiesa di San Matteo (oggi non più esistente) fu aperto il "Castelletto di Rialto", luogo dove la magistratura veneziana della Quarantia decise di concentrare le numerose meretrici cittadine. Il bordello pubblico fu chiamato "Castelletto" forse perché costituito da case alte come torri. Col tempo il Castelletto ebbe regole ben precise sugli affitti, sul tempo di lavoro: non oltre le due del mattino, sui periodi di uscita: solo il sabato e con il capo coperto da fazzoletto giallo... Ma come si può intuire, il controllo non era facile, e la crisi della zona si aggravò con l'incendio di Rialto del 1514, costringendo le meretrici a sparpagliarsi per la città. Alcune di queste si rifugiarono nella zona dove aveva palazzo la famiglia Rampani. Abitando nella zona di Ca' Rampani, furono soprannominate "Carampane"; probabilmente non più troppo attraenti, diedero origine al detto "ti xe una vecia carampana", usato ancor oggi per indicare una donna dall'aspetto non più gradevole.
Categoria a parte costituivano le cortigiane. Pur esercitando anch’esse la prostituzione, le cortigiane si distinguevano socialmente non solo perché potevano contare su lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro cultura e talvolta anche del talento artistico e letterario che erano libere di esercitare pubblicamente proprio grazie alla loro particolare condizione.
Nel 1500 esisteva addirittura un catalogo delle cortigiane con tanto di indirizzi e prezzi indicati! La più celebre era senz’altro Veronica Franco, nata da famiglia benestante si sposò giovanissima con un medico, ma abbandonò presto il letto coniugale per darsi alla vita libera; era anche poetessa e di buona cultura, aveva diverse amicizie tra letterati e nobili, venne anche ritratta da Tintoretto. Quando Enrico III re di Francia venne in visita a Venezia nel 1574 volle conoscerla e trascorse una notte con lei. A ricordo dell’incontro Veronica donò al re il proprio ritratto e due sonetti.  A 40 anni abbandonò l’attività e fondò un ricovero per ex prostitute chiamato “del soccorso”.

giovedì 21 aprile 2011

"A Venezia farei una vita tranquilla e ritirata, come un angioletto. Ancora recentemente scrivevo a Franz Overbeck che amavo un solo luogo sulla terra: Venezia!
(Nietzsche, 1887)

lunedì 18 aprile 2011

Le origini del turismo a Venezia

La vocazione turistica di Venezia ha origini lontane. Già nel 1179 la Serenissima ottiene da Alessandro III la remissione dei peccati per chi si reca in pellegrinaggio alla Basilica di San Marco. Molto prima quindi del 1300, quando Bonifacio VIII istituì il primo Giubileo e proclamò l'indulgenza plenaria per i pellegrini a San Pietro in Roma.
Ma ancor prima, nell'anno 997, Pietro Orseolo II decretava la Festa della Sensa, in memoria della conquista della Dalmazia, in occasione della quale veniva allestita una grande fiera in Piazza San Marco con l'esposizione dei prodotti artigianali locali; fiera destinata a diventare celebre in tutta Europa.
Al connubio dell'indulgenza con la ricca fiera dei prodotti veneziani, va aggiunto naturalmente il richiamo del particolare fascino della città stessa, così diversa da qualunque altra città del mondo conosciuto.
Con le crociate sorgono, parallelamente al servizio di trasporto dei Cavalieri e dei pellegrini sulle navi veneziane, tutta una serie di servizi ad esse connesse. In Riva degli Schiavoni operavano i "Tholomarii", sorta di tour operator ante litteram, che assistevano i viaggiatori per trovar loro alloggio, imbarco e la fornitura dei beni necessari per la traversata in mare.
Al fine di regolamentare la materia e prevenire l'abusivismo (!) e gli imbrogli, il Maggior Consiglio nel 1255 affrontò la questione con il "Capitulum Peregrinorum" che definiva chi e come poteva operare in questo campo. Per farsi un'idea del volume d'affari che comportava questo antenato del turismo, basti pensare che i soggiorni di questi viaggiatori in città si prolungavano mediamente per un mese, e nel solo anno 1384 si effettuarono circa 600 trasporti per la Terra Santa; il prezzo variava dai 24 ai 32 ducati per la sistemazione sul ponte della nave, e dai 40 ai 50 ducati per viaggiare al coperto nella stiva.

(fonti: Fuga & Vianello)

giovedì 14 aprile 2011

“Più di tutto mi è stata congeniale Venezia. Qui le persone sono sollevate dalle normali condizioni di vita ed è come se non fossero più persone. Nonostante sia quasi un bazar, Venezia non diventa mai volgare, Il fascino di Venezia sta proprio nel fatto che questa città non serve, dirò di più: è inutile. E ancora: è una città unica, senza rumori, senza polvere. È meraviglioso il fatto che sia suddivisa in due parti: una parte per tutto ciò che è sotterraneo, la città dei canali, e una città per la gente, che sono le strade. Era il sogno di Leonardo! Usano le gondole soltanto gli stranieri e i proprietari molto ricchi. Il veneziano medio vive sulla strada. Non avendo spazio in larghezza, i veneziani si espansero in profondità, nel particolare, nella miniatura. Ogni particolare nelle loro costruzioni è interessante, e sono proprio i particolari a essere meravigliosi. Fra i pittori qui mi hanno incantato Bellini e Tintoretto… Siamo riusciti a conoscere Venezia così come conosciamo Mosca (eravamo in tre: io, mia moglie e Nadja, la sorella), l’abbiamo amata, siamo stati orgogliosi di quanto abbiamo potuto conoscere e amare. Finora di tutta l’Italia ho nostalgia solo di Venezia… ‘
(Valerij J. Brjusov, 1902)

martedì 12 aprile 2011

San Polo e la balestra

L'andamento curvilineo dei palazzi che si affacciano su Campo San Polo è la testimonianza dell'antica presenza di un rio: era il Rio di S. Antonio o delle Erbe, presente fino al 1761, quando fu interrato con la conseguente eliminazione dei ponti privati. In un dipinto di Joseph Heinz del 1648 conservato al Museo Correr è rappresentato l'antico assetto del campo e lo svolgimento della caccia al toro.
Campo San Polo, per la sua vastità, non solo ospitò in più occasioni la suddetta caccia al toro, ma fin dai tempi più remoti fu sede di mercato, prima al mercoledì e poi al sabato, ed inoltre vi era un bersaglio per il tiro con la balestra. Venezia infatti obbligava tutti i giovani tra i quattordici ed i trentacinque anni ad esercitarsi al tiro con la balestra almeno una volta alla settimana.
Quest'arma era molto amata dai veneziani perché si poteva manovrare velocemente, ed il suo uso perdurò sulle navi della Repubblica anche dopo l'introduzione delle armi da fuoco, rivelandosi cruciale in alcune celebri battaglie marine.

venerdì 8 aprile 2011

Gli Esecutori contro la bestemmia

Sul muro retrostante la Chiesa di San Giacomo dall'Orio vi è una lapide, datata 12 agosto 1616, dove si proibiscono i giochi nelle vicinanze della chiesa, firmata dagli Esecutori contro la bestemmia.
I veneziani fin dalla seconda metà del Duecento, punivano severamente i bestemmiatori. Lorenzo Priuli, nei suoi "Diarii", agli inizi del Cinquecento, ricorda che a Venezia "due cose erano molto difficili da disfare: la bestemmia ed i vestimenti alla francese". Lo stesso Marin Sanudo racconta che il 5 maggio 1519, tre persone che bestemmiarono nell'osteria del Bo a Rialto furono condannate al taglio della lingua.
Fu così che nel 1537 fu istituita una specifica magistratura: gli Esecutori contro la bestemmia. Erano in numero di tre e venivano eletti dal Consiglio dei Dieci. Già nell'aprile del 1539 il Consiglio affidò agli Esecutori anche la punizione di reati relativi al gioco, agli scandali e alla tutela della moralità e del decoro.
Tra il 1586 e il 1627 si ebbero ben 250 denunzie! E i processi erano un centinaio l'anno.
L'importanza di questa magistratura è sottolineata dal fatto che era l'unica che poteva accettare denunce anonime.
Per capire questo notevole sforzo contro la bestemmia bisogna rifarsi alla sensibilità religiosa del Cinquecento: sono anni segnati da guerre, carestie ed epidemie, si fa quindi pressante il bisogno di ingraziarsi il favore divino, eliminando tutto ciò che ne poteva provocare la vendetta.

mercoledì 6 aprile 2011

“Venezia, Venezia! Mi pare che solo ripetendo questa parola io riesca a vedere le sue luci… Sa, ora io non vorrei avere dei quadri di Venezia (al diavolo la dama di Tiziano che si libra in cielo!) bensì i nervosi violini veneziani… e le luci, le luci sull’altra riva, le gondole aperte, aguzze, nere, che di notte t’immagini non nere… L’acqua nera del canale, la camicia bianca del gondoliere, e alla svolta di ignoti ‘canaletti’, in mezzo a questi che non capisci se sono palazzi o covi, le grida gutturali dei barcaioli. Vorrei la Venezia serale, notturna… invisibile, oscura, passata… Cade una lieve pioggia… che bello! Cadi pure! La gente dorme… dormite pure! E tu, mia barca, naviga silenziosamente, piano, e tu, uomo che respiri pesantemente, non chiedere dove portarmi… Tutto mi è indifferente”
(Innokentij F. Annenskij, 1890)