lunedì 4 aprile 2011

I Sestieri di Venezia

Venezia, fin dal 1171, fu divisa in sei zone, denominate sestieri. Questa divisione della città  fu attuata dal doge Vitale Michiel II. In quel periodo si rese necessario l'allestimento di una flotta di 120 navi armate per affrontare le operazioni belliche dell'Imperatore Emanuele Comneno. Allo scopo si impose ai cittadini una tassa straordinaria per far fronte alle ingenti spese, la città fu quindi divisa in zone affinché la Magistratura preposta (gli "Imprestidi") potesse meglio verificare la disponibilità economica di ciascun abitante e provvedere, a guerra finita, alla restituzione delle somme riscosse.
Il "sestiere" corrisponde quindi al "quartiere" delle altre città, che rappresentava la quarta parte dell'accampamento romano diviso da cardo e decumano, schema urbano di un gran numero di centri abitati d'Europa.

Questi i sei sestieri di Venezia:
- Cannaregio: così denominato perché anticamente erano presenti dei canneti;
- Castello: ha preso il nome da un fortilizio ormai scomparso attorno a cui si sviluppò un primo nucleo abitativo;
- Dorsoduro: probabilmente il suo nome richiama le compattezza delle isole di questa zona;
- San Marco: prende il nome dalla basilica dedicata al Santo;
- San Polo: dal nome della chiesa ancora presente;
- Santa Croce: dal nome della chiesa omonima demolita nel 1810.

La Repubblica adottò questo schema di suddivisione anche in alcuni suoi possedimenti, ad esempio la stessa isola di Creta era divisa in sei sestieri.
Una leggenda, che resiste ancora oggi, afferma che il pettine di sei denti del ferro da prua delle gondole rappresenti i sei sestieri, ma non vi è alcuna evidenza storica-documentale che avvalli tale ipotesi.

venerdì 1 aprile 2011

L'Ultima Cena giudicata dall'Inquisizione

clicca per ingrandire
L'allarme dell'incendio si sparse nella notte del 14 febbraio 1571 in campo San Zanipolo, ma nonostante il rapido intervento degli uomini della Serenissima, non si riuscì a salvare il refettorio del convento di San Giovanni e Paolo. La perdita più grave fu la distruzione della tela di Tiziano che vi era contenuta: L'Ultima Cena.
Un'indagine condotta subito dopo l'incidente stabilì che la causa dell'incendio era da imputare ad alcuni soldati tedeschi che bivaccavano nei magazzini posti a fianco del refettorio. Nei giorni successivi vi fu una vera e propria gara di solidarietà nei confronti dei frati, ai quali vennero donate importanti somme di denaro per la ricostruzione della sala. Ma come sostituire la perduta tela di Tiziano? Chi avrebbe potuto eseguire un'opera degna del grande artista?
Dopo lungo dibattere, venne alla fine scelto Paolo Caliari detto il Veronese.
Paolo dovette sentirsi particolarmente libero di interpretare il tema dell'Ultima Cena, dopo aver eseguito diversi lavori su commissione della Repubblica, giacché diede vita alle più ardite soluzioni che la sua fantasia gli suggeriva. Tra i personaggi inseriti nella tela dipinse anche i due soldati tedeschi ritenuti responsabili dell'incendio, raffigurandoli con un bicchiere di vino in mano.
Ma non si limitò a questo e inserì tra gli ospiti della cena nani, buffoni, mori, pappagalli, cani e perfino un irriverente personaggio intento a pulirsi i denti con una forchetta dietro ad una colonna!
Alla vista del singolare dipinto i frati però non gradirono l'eccessiva libertà di interpretazione e dettero vita ad un aperto dissidio con il Veronese. Alla fine ne nacque addirittura una denuncia all'Ufficio Inquisitore.
Il processo è ampiamente documentato presso l'Archivio di Stato di Venezia. Il dialogo tra il pittore e gli inquisitori, e la sentenza finale, segnano un momento decisivo nella storia dell'arte. Il pittore, per primo nella storia, difese la sua libertà d'espressione artistica, rivendicando il diritto dell'artista a mostrare la realtà secondo la sua sensibilità. Queste le sue esatte parole: "Nui pittori si pigliamo licentia che si pigliano i poeti et i matti".
Alla fine il Veronese riuscì ad evitare la condanna per eresia, e il tutto si risolse con la semplice imposizione di cambiare il titolo dell'opera, che divenne così "Cena a casa Levi";
ma è un passaggio chiave nella Storia dell'Arte, perché prima di lui nessuno aveva osato difendere così apertamente e senza tanti sofismi, il diritto di espressione dell'artista, che passa quindi da semplice artigiano che esegue le direttive del committente a vero e proprio creatore di idee e concetti per il tramite della propria arte.

giovedì 31 marzo 2011

martedì 29 marzo 2011

"Oh Venezia, Venezia! Le tue lagune sono per me un incantesimo intenso. Ora sono solo e i luoghi che mi parlano di te hanno una magia indicibile; i volti e le voci mi ricordano un'armonia senza eguali. Venezia, quanto sono felice di rivederti!"
(Franz Liszt, 1839)

lunedì 28 marzo 2011

Ponte della Guerra

Il Ponte della Guerra collega Campo Santa Fosca con la Fondamenta Diedo. Su di esso, come in altri ponti veneziani, si svolgeva il Gioco della Guerra dei Pugni. L'idea era simile a quella dei tornei cavallereschi, una sorta di sfida tra due squadre avverse. Nominati i rappresentanti delle fazioni, si sceglieva il luogo adatto allo scontro che, per la particolare struttura della città, nel caso di Venezia era un ponte.
Il ponte scelto doveva avere adiacenti due fondamenta, necessarie per raccogliere la folla numerosa che assisteva. Inoltre il ponte era adattato con lavori di rafforzamento e, soprattutto, veniva curato l'escavo del rio affinché i combattenti, cadendo nell'acqua, non si ferissero.
All'inizio la Guerra si svolgeva con delle canne, precedentemente immerse nell'olio bollente per indurirle. Il 27 luglio del 1574 fu allestita una guerra delle canne in onore del re Enrico III di Francia al Ponte dei Carmini. I combattenti erano circa 600 e si affrontarono per quasi tre ore. Nonostante la relativa compostezza, dovuta alla presenza dell'esimio ospite, ci furono dei morti, tanto che Enrico III avrebbe esclamato: "Troppo poco per una guerra seria, troppa crudeltà per un semplice gioco".
Quella fu infatti l'ultima volta che si combatté con le canne, e il gioco venne poi sostituito dalla meno pericolosa Battaglia dei pugni.
Lo scopo era quello di gettare gli avversari nel rio sottostante. Vinceva la squadra che riusciva a tenere i suoi uomini sul ponte. Nel 1705 vennero definitivamente proibiti gli scontri.

sabato 26 marzo 2011

Kreativ Blogger Award

Ecco, qui mi si vuol viziare!
Mi giunge un secondo premio dalla mia più grande fan: Nela San (ed ho fatto anche la rima...).
Si tratta del Kreativ Blogger Award, iniziativa, anche questa, simpatica ed interessante, per scoprire nuovi mondi bloggari da esplorare e, in questo caso, anche qualcosa di personale sui blogger che si seguono ;-)

Bando alle ciance veniamo alle regole.
Una volta ricevuto il premio, occorre:

1) trovare 10 blog meritevoli del premio
2) avvisare i blogger premiati
3) raccontare 10 cose di se stessi

Questi i blog che mi sento di premiare (in ordine casuale e volutamente diversi da quelli premiati l'altra volta):

1. Arte e Cultura  informazioni sempre aggiornate su arte e cultura in generale in Italia
2. Cucina italiana per bulgari ... ma anche il contrario!
3. Film Spot recensioni e consigli sul mondo del cinema, non solo di oggi
4. Le vignette del Gava ... impagabili!
5. Giorgio Gori Photography un fotografo emergente ci parla dell'arte della fotografia
6. I libri salvano la vita  un titolo che dice tutto!
7. Basilico, malva & cerfoglio un altro sito di ricette mooolto creativo!
8. Hen's thoughts - Il blog delle Ciose intelligenza, sensibilità e ironia in un blog tutto al femminile
9. Lo specchio di Nigromontanus riflessioni a tutto tondo... o a tutto quadro?
10. Design Fetish creatività allo stato puro!

Queste le dieci cose che (forse) non sapete di me:

1. Musica preferita: jazz
2. Piatto preferito: cous cous
3. Piatto detestato: nessuno
4. Colore: Arancione
5. Cosa indispensabile: materasso duro (piuttosto dormo per terra)
6. Prima di dormire: mi gratto la testa
7. La vita del blogger: un delirio (personalmente ne scrivo 5, o forse 6, non ricordo...)
8  Amo: amare
9  Detesto: la rigidità mentale
10 Paura: del tempo che passa...


Buon fine settimana.

venerdì 25 marzo 2011

Buon compleanno Venezia!

Tra il III e il V secolo, l'Italia è teatro di feroci scorribande da parte di popolazioni barbariche provenienti da est e da nord. Iniziano così nel Veneto le migrazioni di genti verso la laguna, alla ricerca di rifugio.
La laguna era il luogo ideale dove riparare, in quanto l'acqua stessa risultava invalicabile alle orde degli invasori, i quali si muovevano per lo più a cavallo.
Proprio in quegli anni un'antica leggenda pone la nascita della città di Venezia: è il 25 marzo dell'anno 421. data della fondazione della chiesetta di San Giacomo costruita su di un'isola un poco più alta delle altre, e per questo chiamata rivus altus (da cui Rialto). Non a caso il 25 marzo corrisponde alla data dell'Annunciazione del Signore, infatti Venezia fu sempre particolarmente devota alla Vergine Maria.
Dunque oggi Venezia compie 1590 anni!

"Alberto Faletro e Tomaso Candiano, o Zeno Daulo, furono quelli sopredetta opera eletti, i quali insieme con tre principali gentiluomeni, andati a Riva Alta, l’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo nel mezzo giorno del Lunedì Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e maravigliosa fù dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo (come più volte si è calcolato dalli Astronomi) in singolare dispositione".

mercoledì 23 marzo 2011

Tour in barca per la Laguna di Venezia

L'offerta dei servizi de L'altra Venezia si arricchisce ancora: un nuovo itinerario in barca a vela alla scoperta delle isole della Laguna Nord di Venezia.
Il tour, creato in collaborazione con l'Associazione Navigador, viene effettuato su una tipica imbarcazione dell'alto Adriatico, il "bragozzo", mosso a vela o a motore.
Già dalla seconda metà del Cinquecento, il bragozzo veniva utilizzato come barca da pesca lagunare. Nel tempo divenne una vera e propria barca d'altura per la pesca in mare.
La proposta ha l'obiettivo di andare alla scoperta di alcune isole poco conosciute (anche perché non raggiungibili con i mezzi pubblici) e delle attività di pesca e viticoltura che ancora vi vengono svolte.

L'itinerario prevede:
- partenza da Venezia (Ponte Tre Archi, raggiungibile a piedi o con i vaporetti linee 51, 52, 41, 42) o dalla terraferma (Forte Marghera a Mestre, raggiungibile in auto)
- navigazione in laguna fino all'isola di Mazzorbo, dove è previsto un incontro con i pescatori locali
- sbarco e visita alla chiesa di S. Caterina e alla cantina Venissa
- passeggiata a piedi fino a Burano dove ci si imbarca nuovamente con destinazione Isola di San Francesco del Deserto
- pranzo a bordo con prodotti tipici veneti
- nel pomeriggio visita del convento francescano
- imbarco e navigazione costeggiando l'isola di Sant'Erasmo, ricca di orti che forniscono le primizie poi vendute al mercato di Rialto
- sbarco e visita guidata all'isola del Lazzaretto Nuovo (area archeologica)
- imbarco e ritorno al punto di partenza nel tardo pomeriggio

Il tour viene effettuato per un minimo di 6 persone.
Periodo: da maggio ad ottobre.

Per maggiori informazioni: info@laltravenezia.it
o scheda tecnica: http://issuu.com/walterfano/docs/laguna_nord_laltravenezia

lunedì 21 marzo 2011

Piazza San Marco, il salotto di Venezia

Nei primi secoli della storia di Venezia la Piazza era un semplice "brolo", cioè un campo erboso, separato dalla Basilica di San Marco da un canale: il rio Batario (poi interrato nel Duecento). Secondo la Cronaca Dandola, la Piazza venne pavimentata in cotto (con mattoni inseriti verticalmente e disposti a spina di pesce) una prima volta nel 1267, poi lastricata con riquadri di pietre cotte, intramezzate da liste di marmo, nel 1392, per volere del doge Antonio Venier. Seguì il restauro del 1626 e la pavimentazione in trachite (dai vicini Colli Euganei, pietra che ha la proprietà di non divenire scivolosa anche consumandosi nel tempo), su disegno del Tirali, nel 1723. Infine, nel 1893, la pavimentazione della piazza venne rinnovata nel disegno che ha ancora oggi.

Nell'antica Piazza San Marco erano presenti anche delle vere da pozzo, ma quante fossero non è ben chiaro: nel 1283 se ne trovava uno all'imbocco delle Mercerie, mentre nel 1494 lo storico Marin Sanudo parla di due vere da pozzo. In epoche successive, comunque, tutte le cronache parlano di un solo pozzo posto in fondo alla piazza, vicino alla Chiesa di San Geminiano (chiesa fatta abbattere agli inizi dell'Ottocento per volere di Napoleone, il quale fece realizzare al suo posto la cosiddetta "Ala Napoleonica" che ancora oggi chiude la piazza sul lato opposto a quello della Basilica).

Piazza San Marco è da sempre lo spazio destinato a ospitare tutti gli avvenimenti più importanti della vita cittadina veneziana. Una di queste cerimonie si svolgeva la domenica delle Palme, al termine della quale, dalla loggia della Basilica, si liberavano dei colombi. Ai volatili venivano preventivamente legati dei pesetti alle zampe per impedir loro di volare troppo in alto e per esser quindi velocemente ricatturati. Ma non tutti venivano presi e così, nel tempo, diversi colombi cominciarono a nidificare sulla Basilica e sui tetti delle Procuratie e del Palazzo Ducale, arrivando a moltiplicarsi enormemente nei secoli. Ad essi pensava la Repubblica con quotidiane distribuzioni di grano.

(Fonte: M. Brusegan)

giovedì 17 marzo 2011

mercoledì 16 marzo 2011

“L’emozione che ti dà questa città non è paragonabile a nessun’altra, è talmente poetica e originale che ti viene da piangere, ci si rifà di tutte le perdite e le disgrazie. Anche solo la Basilica di San Marco vale il viaggio, ah, com’è toccante vedere questo divino vecchietto bizantino”
(Viktor M. Vasnetsov , 1885)

lunedì 14 marzo 2011

Sviluppo urbano nell'antica Venezia

Lo sviluppo urbano di Venezia è stato fortemente condizionato dall'ambiente naturale così insolito: la disposizione dei suoi spazi è stata dettata infatti dal continuo rapporto terra-acqua.
Per potersi sviluppare, la città ha dovuto strappare all'acqua il terreno su cui sorgere, rassodando con palafitte di legno o con strati di pietra gli isolotti situati nei luoghi maggiormente difendibili, tanto che il suo tessuto urbano ha assunto caratteristiche apparentemente casuali.
La laguna ha condizionato anche il gusto dei suoi abitanti, perché i rapporti spazio-colore e architettura-luce divennero fondamentali. L'architettura è misura e costruzione dello spazio, ma a Venezia lo spazio si trasformò in luce e colore.
E' facilmente intuibile come ambiente, clima e costume degli abitanti furono gli elementi che maggiormente condizionarono la realizzazione degli edifici pubblici e privati.
La prima accurata descrizione dell'ambiente lagunare è quella del prefetto romano Cassiodoro (VI secolo): "abitanti liberi e autonomi le cui risorse di vita sono la pesca e il sale, e le loro abitazioni sono per lo più di legno con tetto di paglia, materiali adatti ad un terreno fragile e fangoso".
Già nel IX secolo, in alcune zone dal terreno più compatto, si incominciò a costruire anche con la pietra, materiali provenienti per lo più dagli edifici romani distrutti dalle orde barbariche nelle zone di Aquileia e Altino.
Le case erano a due piani: quello inferiore in argilla, più umido, destinato a deposito e quello superiore in legno, più asciutto, ad uso abitativo. Le finestre erano strette, con inferriate, e non era ancora evidente, nella struttura, la distinzione tra i vari ceti sociali.
Nei quattro secoli seguenti si delineò (seguendo un principio policentrico, per cui intorno ad un campo e ad una chiesa si sviluppava il tessuto urbano) l'intera struttura della città, e a fine Trecento Venezia aveva già pienamente raggiunto la sua conformazione e dimensione, non molto diversa da quella che vediamo oggi.

venerdì 11 marzo 2011

“Una cosa posso dirla: nella mia vita non ho visto una città più straordinaria di Venezia. È un vero incanto, uno splendore, una gioia della vita. Al posto delle strade e dei vicoli ci sono i canali, al posto dei postiglioni le gondole, l’architettura è fantastica, e non esistono posti che non suscitino un qualche interesse storico o artistico. Ti muovi in gondola e vedi Palazzo Ducale, la casa dove visse Desdemona, le abitazioni di pittori famosi, le chiese… E nelle chiese sculture e pitture che non ci siamo nemmeno mai sognati. Per farla breve, un incanto… L’uomo russo, povero e umile, qui, nel regno della bellezza, della ricchezza e della libertà, potrebbe impazzire. Si desidera restare qui per sempre, e quando in una chiesa ascolti l’organo vorresti farti cattolico, I sepolcri di Canova e Tiziano sono grandiosi. Qui i grandi artisti vengono seppelliti come i re, nelle chiese, qui non si disprezza l’arte, come da noi, le chiese danno rifugio alle statue e ai quadri, per quanto nudi siano”.
(Anton P. Čechov, 1891)

lunedì 7 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (2° parte)

Oltre ai calici, i prodotti greci colmano anche i piatti di Venezia. Dall'Epiro arriva una pregiata bottarga che, macerata nell'olio e tagliata a fettine sottili, viene servita come antipasto. S'importa anche un salatissimo formaggio chiamato zimotò, di cui si ha memoria fino all'inizio del Novecento.
Si rifanno a Bisanzio altri due elementi doc della pratica culinaria lagunare: l'abitudine di irrorare i piatti d'olio (mentre le cucine europee si devono accontentare di burro e strutto) e l'uso dell'uvetta passa: quella di Corinto, piccola e scura, adatta per le preparazioni salate, e quella Sultanina, più dolce e adatta per i dessert. Entrambe utilizzate nelle torte nicolotte, nelle sarde e negli sfogeti in saor.
Secoli di rapporti conviviali possono essere riassunti nella figura di un teatrante gastronomo, Antonio Papadopoli, mezzo veneto e mezzo greco. Cordiale e disordinato, nonché ottima forchetta, l'attore-gourmet pubblica nel 1866 un libretto intitolato Gastronomia sperimentale, nel quale propone 12 piatti "aristocratici" e 12 piatti "democratici", tra questi la coda di bove alla greca, un melange di sapori veneto-grecheschi!
Quello che oggi rimane di secoli di scambi culinari sono: i sardoni ala greca, cotti in un delicato sughetto di limone aglio e prezzemolo; e una deliziosa torta secca di pasta sfoglia chiamata appunto la grega, ricoperta di un abbondante strato di mandorle

venerdì 4 marzo 2011

Gastronomia veneto-bizantina (1° parte)

Un incessante andirivieni di uomini e merci collega le sponde dell'Adriatico con quelle dell'Egeo: grano da Cipro, vino e olio da Creta, sale e uva passa da Cefalonia e Zante, sono i prodotti monopolistici trasportati con profitto dalla Serenissima.
Tranne qualche rara eccezione, nel contesto lagunare le imprese elleniche sono di dimensioni medio-piccole, tuttavia è molto ampio l'elenco delle merci trattate. Cotone, lane, tappeti, drappi fatti di pelo di capra chiamati cameloti, coperte di lana ruvida dette schiavine, sono apprezzati nelle case veneziane. Anche la cera è un prodotto importato dai greci. Quanto a grano, orzo, fave e semi di lino, riempiono i magazzini di una città che "non ara, non semina, non vendemmia" ma che trae risorse da ogni porto.
Un discorso a parte merita il vino, che a Venezia non è mai mancato. Chiuso in orci di terracotta da 30 litri, da Creta, da Cipro, dal Peloponneso, i mercanti greci trasportano i cosiddetti "vini navigati", che vengono speziati o addolciti con miele o melassa, per conservarli meglio. Di quest'antico metodo oggi rimane solo la bevanda tonificante dei freddi carnevali: il vin brulé, che si beve caldo con zucchero, cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
Ma il  nettare di cui si fa più smercio è l'assai delicata malvasia (termine derivato dalla città greca Monemvassìa), che si divideva in dolce, tonda e garba, ed era tanto apprezzata da essere registrata nelle spese pubbliche. Come annotava lo storico Giuseppe Tassini: "di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi; e di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni".

mercoledì 2 marzo 2011

"No gh'è a sto mondo, no, cità più bela,
Venezia mia, de ti, per far l'amor.
No gh'è dona, né tosa, né putela
che resista al to incanto traditor.

Co' un fià de luna e un fià de bavesela
ti sa sfantar i scrupoli dal cuor.
Deventa ogni morosa in ti una stela
e par che i basi gabia più saor.

Venezia mia, ti xe la gran rufiana,
che ti ga tuto per far far pecai:
el mar, le cale sconte, i rii, l'altana,

la Piazza e i so colombi inamorai,
la gondola che fa la nina-nana...
fin i mussati che ve tien svegiai!"

(Riccardo Selvatico)

martedì 1 marzo 2011

Scuola dei Tiraoro e Battioro

Addossata alla Chiesa di San Stae si trova la sede della Scuola (o Scoletta) dei Tiraoro e Battioro. La Scuola venne fondata nel 1420 ed aveva inizialmente sede ai Santi Filippo e Giacomo, poi nella Chiesa di San Lio, dove rimase fino al 1710 quando si trasferì a San Stae. L'edificio, in stile tardo barocco, è attribuito all'architetto Giacomo Gaspari, che aveva partecipato senza successo al concorso per la facciata della Chiesa di San Stae.
I tiraoro fabbricavano fili d'oro per la manifattura tessile, per l'abbigliamento e per l'oreficeria, mentre i battioro riducevano l'oro in lamine sottili per la decorazione di opere d'arte (ad esempio per la facciata della Ca' d'Oro sul Canal Grande, oggi sede del Museo Franchetti).
Anche se la materia trattata era preziosa, la Scuola non fu mai ricca e anzi contrasse molti debiti per la costruzione dell'edificio. Quando la Scuola fu soppressa nel periodo napoleonico portò poche entrate alle casse del governo francese, essendo in forte passivo.
Sotto il governo austriaco l'edificio fu venduto alla nobildonna Angela Barbarigo, la quale per volere testamentario desiderò che l'immobile divenisse luogo di culto, ma gli eredi provvidero diversamente: divenne infatti deposito di carbone!
Nel 1876, in condizioni più che precarie, l'edificio fu acquistato dall'antiquario Antonio Correr che lo restaurò per destinarlo a galleria espositiva, uso mantenuto ancora oggi.

lunedì 28 febbraio 2011

Compleanno

Oggi è il mio compleanno, ne approfitto quindi per prendermi un giorno di riposo ;-)
Colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutti i miei lettori, che lentamente ma costantemente crescono di giorno in giorno dandomi la forza di continuare a curare questo blog attraverso il quale cerco di trasmettere il mio amore per Venezia.
Grazie!

venerdì 25 febbraio 2011

"Il carnevale ha assunto dimensioni grandiose. Una sciocchezza piccola è stupida, ma una grande sciocchezza può diventare meravigliosa, grandiosa. La ‘febbre’ delle maschere da normale è diventata altissima. Immagina le due piazze, un lungomare (il nostro, riva degli Schiavoni) e tutti gli annessi vicoli pieni di gente e di maschere, non si riesce a passare, nessuno si può muovere, ovunque grida, risate, ma niente di indecente, come a Parigi. Quest’ultimo particolare mi ha affascinato. Sono gente allegra, non il personale vestito in maschera di un bordello”
(Aleksandr I. Herzen, 1867)

giovedì 24 febbraio 2011

Tintoretto è Venezia anche quando non dipinge Venezia

"C'è nelle sue opere, una forma di pesantezza, che fa sì che lo spazio del Tintoretto non sia quello del pittore, ma quello dello scultore: egli è un pittore che dipinge i rapporti spaziali che si hanno quando si scolpisce - egli stesso era particolarmente colpito da ciò. Partendo da qui comprendiamo che per il Tintoretto un quadro è un problema di pittura, ed è questo che ne rivela l'inquietudine.
Con lui le dimensioni non sono più assolute, diventano relative allo loro posizione rispetto ad un testimone. Tintoretto ha inventato lo spettatore del quadro. Perciò è moderno: è una rivoluzione rispetto alla pittura precedente, e annuncia gli impressionisti. Egli voleva ritrovare lo spazio così come è vissuto da noi, con le sue distanze insuperabili, i pericoli, le fatiche: pensava che questa fosse la realtà assoluta dello spazio, perciò ha trovato suo malgrado la soggettività. E' sempre rispetto a noi che costruisce i suoi quadri.
La condizione dell'uomo gli appare come vano rumore e furore, storia idiota raccontata da un pazzo. E nel contempo, come per la bellezza dei versi di Shakespeare, l'idiozia è velata dalla bellezza dei movimenti d'insieme. Con l'occasione sparisce il mondo dell'atto. Già il manierismo dei pittori fiorentini del Cinquecento e infine del Tiziano, l'avevano trasformato in gesto. Tintoretto lo trasforma in passione. Meraviglia, terrore, eccesso, angoscia, follia, ecco le condizioni dell'uomo di Tintoretto".
(J.P.Sartre)

martedì 22 febbraio 2011

“Venezia è l’assurdità più bella che l’uomo abbia potuto creare”
(Aleksandr Herzen)

lunedì 21 febbraio 2011

Il corno ducale

Uno dei più noti simboli di Venezia è il cosiddetto "corno ducale", cioè quel curioso copricapo che  a partire dal IX secolo, tutti i dogi erano tenuti ad indossare. In realtà anche prima di allora i dogi indossavano un cappello come simbolo del loro incarico, ma era di forma completamente diversa.
A quei tempi era usanza che il doge si recasse una volta all'anno a rendere omaggio alle reliquie di San Pancrazio e di Santa Sabina, custoditi nella chiesa di San Zaccaria. Le due reliquie erano stato donate al monastero di San Zaccaria da Papa Benedetto III, quando questi, messo in fuga dal sultano di Babilonia, trovò rifugio tra queste mura.
Era questo un convento particolare, in quanto riservato ai soli patrizi, e per questa ragione il convento era spesso fatto oggetto di doni e lasciti sostanziosi, che permettevano alle monache di vivere in maniera decisamente agiata, e non priva di qualche diversivo, dal momento che ben poche erano lì per autentica vocazione.
Fu nell'occasione della visita del doge Pietro Tradonico nell'864 che la badessa Agostina Morosini gli fece dono di un bellissimo copricapo, dalla forma particolare, detto appunto "corno". Era interamente trapuntato di fili d'oro e adornato di 24 perle, un grosso rubino ed una croce formata da 28 smeraldi e 12 brillanti. Il cappello era talmente prezioso che venne soprannominato zoia (cioè "gioia" o "gioiello").
Il dono non era rivolto però al doge personalmente ma alla carica che rivestiva, di conseguenza il copricapo venne custodito nel Tesoro della Repubblica e utilizzato solo in occasioni ufficiali particolarmente importanti.

(Fonte: M. Brusegan)

venerdì 18 febbraio 2011

"Dopo pranzo sedersi ad un tavolo di uno dei caffè sulla Piazza San Marco osservando la folla brulicante composta di persone di ogni sorta è un'esperienza accattivante. Mi piacciono anche le stradine, strette come un corridoio, soprattutto al calar della notte, quando i negozi sono illuminati a gas. In poche parole, mi sono innamorato di Venezia"
(Tchaikovsky, 1877)

giovedì 17 febbraio 2011

Gli spezieri veneziani e le loro celebri pozioni

Gli antichi farmacisti veneziani (spezier de fin) avevano a disposizione tutto ciò che occorreva loro per preparare i medicamenti: gli strumenti di vetro erano prodotti in laguna e dall'Oriente si importava una gran varietà di erbe medicinali, spezie e droghe.
Producevano curiose specialità come l'Amaro Mantovani, per problemi di stomaco, a base di assenzio, e l'Olio di scorpioni, per le ferite, creato usando cento scorpioni vivi affogati in 2 libbre d'olio d'oliva. Ma erano celebri soprattutto per due altri prodotti: il Mitridato, a base di erbe e castoreum (una sostanza estratta dalle ghiandole del castoro), e la Theriaca o Triaca, una sorta di panacea contro tutti i mali famosissima in epoca medioevale.
La preparazione della Triaca a Venezia veniva fatta in pubblico assumendo quasi toni di festa, i 64 ingredienti che la componevano venivano pestati in pesanti mortai, il tutto accompagnato da canti tradizionali. La Triaca veniva poi esportata in tutta Europa. Si diceva guarisse da tutte le malattie contagiose, liberava dalla febbre, sanava il mal di stomaco, rischiarava la vista, e molto altro!
Non tutte le spezierie avevano il permesso di confezionarla, tra quelle abilitate la più famosa era quella della "Testa d'oro" a San Bartolomeo (l'insegna è visibile ancora oggi).
La prima Scuola di mestiere degli Spezieri comparve nel 1258, aveva sede a San Bartolomeo e assunse come patrono S. Salvador. Le regole che l'antico spezier doveva seguire erano precise: conoscenza del latino, evitare gioco e vino, indossare sempre abiti puliti. Due volte l'anno la spezieria era controllata da funzionari dello Stato, e se si trovavano prodotti avariati questi erano sequestrati e bruciati sul Ponte di Rialto.

(Fonti: P. Zoffoli - M.C. Bizio)

mercoledì 16 febbraio 2011

"Oltre le tante e rare virtù che possedono le gentildonne venetiane, per la maggior parte sogliono haver quella del suonar di lauto, che nel fuor di modo si esercitano, e diventano tanto eccellenti che suonando per lor diporto ora con le velle concertate note rendono a loro medesime melodie, e contento, e a chi l'ode stupor e meraviglia"
(Giacomo Franco, 1570)

lunedì 14 febbraio 2011

Apre la Casa di Corto Maltese a Venezia

Il 20 febbraio si inaugura a Venezia la Casa di Corto Maltese. Si tratta di una casa-museo dedicata al celebre personaggio creato dalla mente geniale di Hugo Pratt. Ma non solo. Ci saranno spazi dedicati ad esposizioni d'arte e ad attività ludico-creative. Questo bellissimo progetto nasce grazie all'impegno di un gruppo di persone appassionate di Corto Maltese e impegnate attivamente nel sociale e nella promozione artistica, tutte naturalmente accomunate da un grande amore per Venezia.
La Casa di Corto è ubicata all'interno di un bel palazzetto, con tanto di piccolo giardino interno, in Rio Terà dei Biri (Cannaregio, 5394/B), non molto distante dalla Chiesa dei Miracoli.
Un'occasione imperdibile per tutti gli amanti di questo personaggio, tanto più che all'interno della Casa sarà possibile anche incontrare Guido Fuga e Lele Vianello, collaboratori di sempre di Hugo Pratt, nonché autori della guida "Corto Sconto".
Sono infine felice di annunciare che i proprietari della Casa di Corto hanno voluto stringere un accordo con me, grazie al quale, tutte le persone che parteciperanno ai miei percorsi di visita a Venezia avranno diritto ad uno sconto sul biglietto d'ingresso alla Casa.

venerdì 11 febbraio 2011

"Venezia si mostra non una sola, ma più città separate e tutte congiunte insieme, di maniera che uscendosi da una contrada ed entrandosi in un'altra tu dirai senza dubbio d'uscire da una città e di entrare in un'altra, con infinita soddisfazione degli abitanti e con stupore dei foresti"
(Jacopo Sansovino, 1560)

giovedì 10 febbraio 2011

Riccardo Selvatico, poeta e sindaco di Venezia

Riccardo Selvatico nasce a Venezia il 16 aprile 1849. Personalità intellettuale di grande prestigio nella Venezia di fine secolo, è autore di commedie e poesie scritte in dialetto. Tra le commedie, di ambientazione popolare, le più note sono 'La bozeta de l'ogio' e 'I recini da festa'.
Dalla moglie Anna Maria (Nina) Charmat ha due figli, Lino e Luigi, che diventeranno entrambi pittori.
Nel 1890 viene eletto sindaco di Venezia a capo di una giunta progressista. Resterà in carica fino al 1895; le successive elezioni, vengono infatti vinte dalla coalizione clerico-moderata (sostenuta dalla curia veneziana), sull'onda di una campagna di stampa condotta contro l'operato della giunta Selvatico, considerata eccessivamente laica.
Nel corso del suo mandato ha comunque modo di ideare la prestigiosa istituzione che ancora oggi contribuisce a fare di Venezia una delle principali città di cultura. È infatti sua l'idea di dare vita ad una esposizione d'arte internazionale; da questa idea, sostenuta da altri intellettuali veneziani fra cui Giovanni Bordiga, nasce nel 1895 la Biennale di Venezia, che verrà inaugurata alla presenza del Re, e di cui Selvatico, ormai non più sindaco, terrà il discorso inaugurale.
Selvatico morirà a Biancade il 21 di agosto 1901.
Un ritratto di Selvatico, opera di Alessandro Milesi, è conservato a Ca'Pesaro a Venezia, mentre un'erma in bronzo, opera del Canonica, si trova nei Giardini della Biennale.

(Fonte: Wikipedia)

martedì 8 febbraio 2011

"Anche l'acqua è corale in tanti modi, in realtà tutta la città, specie di notte, è come un'orchestra gigantesca con i leggii appena rischiarati dei palazzi, il coro incessante delle onde e il falsetto di una stella nel cielo invernale. La musica sovrasta l'orchestra e nessuna mano può girare la pagina"
(Joseph Brodsky, 1992)

lunedì 7 febbraio 2011

Fare il Listòn

In ogni città esiste, o è esistito, un luogo pubblico dove passeggiare alla sera con gli amici, per mettersi un po' in mostra o cercare nuovi amori. A Venezia, città libertina per eccellenza, questa usanza esisteva già molti secoli fa.
Uno dei più antichi luoghi di queste passeggiate era quello di Campo Santo Stefano, già nel XVI secolo. In quel tempo il campo era erboso, salvo una striscia, una "lista" che era selciata e dove si poteva camminare comodamente avanti e indietro, chiacchierando e facendosi notare. Il passeggio serale si chiamò così listòn.
Si svolgeva principalmente nei giorni di festa e soprattutto a Carnevale (che a Venezia durava 5 mesi), cominciando verso le 22 e continuando fino a tarda notte. Per godersi il listòn o per riposarsi ogni tanto, venivano disposte delle sedie lungo il camminamento. Le dame sfoggiavano i vestiti, i monili più belli e le acconciature più complicate, lanciando sguardi ammiccanti ai cavalieri.
Con il passare del tempo il listòn si spostò in piazza San Marco, dove diventò stabile durante l'estate e le sedie venivano affittate per cinque soldi l'una. Qui alla sera un gran numero di dame sfilavano civettando con i loro cavalieri o con qualche sconosciuto, agghindate come meglio potevano. Il via vai era intenso, come intenso era il fitto intreccio di segnali, sguardi e sorrisi e quant'altro si potesse fare nei corteggiamenti.
Di queste passeggiate riferisce, naturalmente, anche Giacomo Casanova nelle sue "Memorie".

sabato 5 febbraio 2011

"Certe donnicciuole che quando, passato l'inverno, e la stagione comincia a migliorare, escono a guisa di lucertole, e portate fuori le loro sedie impagliate, mettonle agli usci, e fatta sala del campo, una fa calzette coi ferruzzi, un'altra dipana, quale annaspa, quale cuce, e parlano in comune dallo spuntare fino al tramonto del sole"
(Gasparo Gozzi)

venerdì 4 febbraio 2011

Il Fontego del Megio

Il Fontego del Megio (fondaco del miglio) si erge a fianco del Fontego dei Turchi sul Canal Grande. Poco si conosce di questa massiccia e sobria costruzione con la facciata in cotto rifinita da un coronamento merlato.
Le merlature costituiscono un elemento tipico della Venezia medievale che persisterà anche nelle epoche successive: queste aumentano la leggerezza e l'eleganza dell'edificio, ma non hanno (a Venezia) alcuna funzione difensiva.
Nel XII e XIV secolo, periodo bizantino, sono triangolari; probabilmente hanno preso la loro forma dalle antiche steli commemorative o forse dalla seghettatura delle palizzate che circondavano i conventi.
Nel XV secolo, periodo gotico, il materiale preferito è il cotto, giocato con forme sempre diverse ed originali.
Nel XVI secolo, periodo rinascimentale, le merlature sono per lo più in pietra d'Istria e lavorate in modo raffinato. L'artista che ha lasciato un esempio di nuovo tipo di merlatura fu Palladio: esso è ad arco rovesciato, come si può osservare a San Giorgio Maggiore.
Il Fontego del Megio risale al 1300 ed era destinato a deposito del miglio, usato dalla Repubblica nei periodi di carestia. Il miglio in genere era usato per i sudditi che, a differenza dei veneziani, sapevano rinunciare al pane bianco.
Raramente i veneziani ricorsero all'uso del miglio e quelle poche volte furono ricordate dal popolo con efficacia, come quando, nel 1570, morì il doge Pietro Loredan, il quale a causa di una carestia aveva ordinato che il pane fosse confezionato con il miglio: "El dose mejotto, che fa vender el pan de mejo ai pistori, xe morto!" (Il doge megiotto, che fa vendere il pane di miglio ai panettieri, è morto!).

Fonte (M.C.Bizio)

giovedì 3 febbraio 2011

"Durante il Carnevale si organizzano molti piccoli balli che sono chiamati festini. A tal scopo è messa a disposizione una casa, dove una lanterna affissa alla porta e abbellita di ghirlande serve da emblema per tutta la durata del Carnevale; un violino ed una spinetta sono tutto l'apporto musicale, e l'entrata è libera per tutti"
(A.-T.-L. de Saint-Didier, 1680)

mercoledì 2 febbraio 2011

Giorgio Massari, l'ultimo grande architetto della Serenissima

Sulla vita di Giorgio Massari esistono poche notizie, nonostante possa essere considerato l'ultimo grande architetto della Repubblica di Venezia, attento non solo alle costruzioni maggiori come chiese e palazzi, ma anche a quelle minori come cori lignei (Gesuati), confessionali e armadi da sacrestia (San Marcuola) e cancellate così raffinate da sembrare un merletto (Cantorie della Pietà).
Il Massari nacque a Venezia il 13 ottobre 1687 a San Luca da Stefano marangon (falegname) e Caterina Pol. Ebbe una certa istruzione, ma non si conosce come sia stato il suo esordio in architettura. Il primo fra i suoi committenti fu Paolo Tamagnin, ricco commerciante che abitava in Campo San Paternian, per il quale Giorgio costruì una villa ad Istriana nel 1712. Tra i due nacque una forte amicizia e quando il Tamagnin morì, nel 1734, lasciò alla moglie, Pisana Bianconi, solo l'usufrutto del capitale e nominò erede universale il Massari; inoltre gran parte delle rendite doveva essere accantonata per raggiungere la cifra di centomila ducati al fine di ristrutturare la Chiesa di San Giovanni in Bragora.
Nel 1735 Massari sposò la vedova cinquantaseienne del Tamagnin e andò a vivere nella sua casa alla Bragora. Si crede che il matrimonio sia stato il coronamento di un vecchio amore tenuto nascosto per anni.
Rimasto vedovo nel 1751, senza figli, il Massari trascorse una vecchiaia non facile a causa di numerosi acciacchi: lo si intuisce dall'inventario dei suoi beni personali, tra i quali un elenco di spese con un passivo di ben 70 ducati per medici e medicine. Nonostante le difficoltà fisiche, la sua attività si protrasse fin quasi alla morte, avvenuta il 20 dicembre 1766.
Il Massari fu un architetto stimato, pur nella sua semplicità e spontaneità. Non era particolarmente erudito, ma era un attento e preciso osservatore delle opere dei grandi maestri come Palladio, Sansovino e Longhena. Fu sempre pronto ad accettare consigli e non fu mai avido di denaro.
Fu però anche invidiato da certi suoi colleghi; così scrisse il Temanza di lui: "Il superbo e maligno Massari, ma dovrei dire l'ignorante asinaccio. Uomo tolto dall'umile professione di legnaiolo e per sola fortuna innalzato alla stima di celebre Architetto".

martedì 1 febbraio 2011

"Non riceverai molte descrizioni. Non è possibile farlo per l'ebbrezza che Venezia mette addosso"
(Sigmund Freud in una lettera alla moglie, 1895)

lunedì 31 gennaio 2011

L'erezione delle chiese di San Teodoro e di San Geminiano

Correva l'anno 552 e il re degli Ostrogoti, Totila, alla testa del suo esercito lacerava un'Italia infelice. L'imperatore bizantino Giustiniano aveva eletto il suo generale Narsete come comandante in capo di tutte le truppe a difesa dell'Italia, con il compito preciso di debellare gli Ostrogoti. Questi, alla testa dell'esercito bizantino, risalì la Dalmazia, l'Istria e giunse ad Aquileia. A questo punto si aprivano di fronte a lui due strade, una che si avventurava in acqua e navigando un po' in laguna, un po' in mare aperto, portava all'esarcato, l'altra terrestre, passando per Treviso. Quest'ultima, certamente più rapida, era però molto pericolosa, così Narsete decise di rivolgersi ai veneziani chiedendo il loro aiuto per il trasporto delle truppe. I veneziani immediatamente si impegnarono ad approntare i navigli e gli armamenti per il trasporto dell'esercito bizantino.
Durante la fase preparatoria il generale Narsete fece visita alla città di Rivoalto (l'antico nome di Venezia, toponimo all'origine di "Rialto"). A lungo si fermò ad esaminare da vicino la singolare posizione di questi luoghi e la sorprendente e industriosa attività della città lagunare, della quale aveva sentito parlare in termini entusiastici. Egli, prima di lasciare la laguna per intraprendere la spedizione militare, fece voto che in caso di vittoria sarebbe tornato a avrebbe fatto erigere a sue spese due chiese, una dedicata a San Teodoro, il santo greco primo patrono di Venezia, e l'altra a San Geminiano.
L'esito della guerra fu positivo: l'armata di Totila venne messa in fuga dopo una cruentissima battaglia, e tra i caduti si contò anche lo stesso capo ostrogoto. Narsete, fedele alla promessa fatta, fece ritorno a Rivoalto, approvò i disegni delle due chiese votive e ne ordinò l'erezione. I due templi sorsero uno di fronte all'altro, sulle due rive opposte del canale Batario che anticamente correva nello spazio che oggi è occupato dalla piazza San Marco.
La piccola chiesa di San Teodoro verrà poi inglobata nella basilica di San Marco, mentre la chiesa di San Geminiano verrà demolita ai primi dell'Ottocento per volere di Napoleone. Il canale Batario venne interrato nel 1156 allo scopo di rendere più ampia e comoda quella che sarebbe diventata la "piazza più bella del mondo".

(Fonte: M. Brusegan)

venerdì 28 gennaio 2011

L'altra Venezia: percorsi musicali

Il servizio de L'altra Venezia si arricchisce ancora e presenta: Storia della Musica a Venezia.
Si tratta di due percorsi musicali che raccontano la storia della musica a Venezia dal XVI al XX secolo. Le tracce dei teatri barocchi e degli ospedali musicali sono ancora poco conosciute, ecco quindi l'idea di realizzare degli itinerari specifici alla scoperta della faccia complementare alla pittura veneziana. Sì perché i viaggiatori europei che nel XVIII secolo giungono a Venezia scrivono resoconti dai quali traspare una città permeata e avvolta nella musica, quasi senza che si possano distinguere i suoni naturali dell'acqua che scorre nei canali e delle grida dei gabbiani, da quelli suonati dagli strumenti nelle chiese, nei palazzi e negli angoli delle strade.
Ai progenitori della musica veneziana si aggiungono nel tempo i grandi compositori stranieri che qui vengono a cercare ispirazione, e a volte anche a restarci, imprigionati dalla magia ammaliatrice della sua atmosfera sonora. Così, da crocevia delle merci, Venezia diventa una meta irrinunciabile per chiunque nutra passione e interesse per la musica, sia questa sacra o popolare.

Vedi anche scheda: Itinerario sulla Storia della Musica a Venezia

mercoledì 26 gennaio 2011

"Venezia! Se mi avessero detto che quello che vivevo era vero non ci avrei creduto, talmente erano irreali e piene di stupore quelle ore passate in questa città unica"
(Jules Massenet)

martedì 25 gennaio 2011

Contaminazioni bizantine nella lingua veneziana

Parole ed espressioni quotidiane dei greci che vivevano a Venezia sono alla base di una particolare parlata, detta "venetogrecesca". Questo idioma lessicale è filtrato nella commedia dialettale (particolarmente viva nel Cinquecento) dove s'incontrano figure convenzionali come il recitatore del prologo, il vecchio innamorato, lo stradioto (soldato greco) millantatore.
Il dialetto veneziano ha preso in prestito circa 300 vocaboli  greci, molti riguardano il settore delle costruzioni e rivelano la diretta partecipazione di maestranze greche nell'edilizia veneta. Per fare qualche esempio: il pato de la scala è il pianerottolo, il pato de la porta, la soglia: dal greco patos, "pavimento". Di maggior rilievo è il liagò o diagò, cioè "luogo esposto al sole", da heliakos (Helios=Sole).
Ma il segno più evidente della prevalenza greca nel campo dei lavori edilizi è nascosto in una parola di uso comune: sproto. Oggi lo sproto, nel veneziano corrente, è un saccentone, un presuntuoso, Col suo corredo di sprotada, sprotezzo, sprotin e sprotar si rifà all'atteggiamento di superiorità che dovevano avere i capo-cantiere, chiamati in Grecia protomaistor, letteralmente "primo maestro", termine riferito specificamente al capo dei muratori e passato poi a designare il responsabile di un settore dell'Arsenale.
Ma come non ricordare il termine veneziano per designare la "forchetta": piron, in strettissima assonanza con il greco piruni!

mercoledì 19 gennaio 2011

"Io stesso mi sforzo di ascoltare i colori così come ascolto le pietre o i cieli di Venezia: come rapporti tra ondulazioni, vibrazioni... svincolati da ogni laccio simbolico. Mi sono anch'io divertito ad ascoltare e numerare le differenti sonorità della Lavanda dei piedi di Tintoretto. Si tratta appunto di uno spazio a episodi, a isole..."
(Luigi Nono)

martedì 18 gennaio 2011

Sunshine Award

Sono smisuratamente felice di comunicarvi che ho ricevuto un premio. Un premio "ufficioso" e per questo ancor più apprezzato: lo Sunshine Award.
Il piacere è ancor più grande se penso che mi giunge da una persona di grande sensibilità e intelligenza che conduce con stile e passione il suo blog: Gialli e Geografie, ringrazio quindi di cuore Nela San per avermi inserito nell'elenco dei suoi 12 blog preferiti!

Lo Sunshine Award è una sorta di segnalazione di stima verso quei blogger che si leggono e si stimano in particolar modo..

Quando si riceve il premio,
- oltre a ringraziare chi ci ha premiato [grazie Nela]
- si scrive un post per il premio, come questo
- si passa il Premio a 12 blog che riteniamo meritevoli,
- si inseriscono i link qui di seguito e
- si comunica ai loro rispettivi autori l'assegnazione del premio

Questi sono i miei Top 12 (in ordine alfabetico):

1. Accademia Affamati Affannati  impossibile da etichettare...
2. Alloggi Barbaria  il miglior blog in circolazione su Venezia
3. Brain 2 brain  riflessioni filosofiche stimolanti
4. Camera Doppia un blog non di fotografia ma sulla fotografia
5. Cartolleria qui nessuna parola, si comunica solo con la magia delle immagini
6. Cavoletto di Bruxelles il miglior blog di cucina in assoluto!
7. Engrammi  La biblioteca del curioso - divagazioni sull'arte
8. Gli stupidi pensieri pensieri bislacchi (dice lei) di un cervello interessante (dico io)
9. Mammanarchica il blog di una mamma alternativa
10. Passaggi mimetici  poesia in nuova veste
11. Personalità confusa un blog geniale!
12. VU30 vietato under 30


Buona lettura.

lunedì 17 gennaio 2011

Il diario di un grande pittore.

"Allora caro zio, verrete a vivere con noi?". All'invito del giovane nipote l'uomo rispose con un forte abbraccio. "Sarai come un figlio", esclamò. "Vi terrò come un padre" rispose il ragazzo. Queste reciproche manifestazioni d'affetto, in una splendida giornata di sole a Venezia, venivano poi annotate durante la notte in un quaderno alla fioca luce di una candela. Un quaderno che non era un diario qualunque, ma il libro dei conti e delle confidenze di Lorenzo Lotto: uno dei più grandi, e meno compresi, artisti del Cinquecento. Di carattere difficile, forse arrendevole con troppa facilità, Lorenzo Lotto si trovò a dividere la scena artistica del suo tempo con personalità del calibro di Tiziano e del Bellini. Un confronto non impari, ma nella quale la personalità fragile del Lotto non riuscì a competere.
La convivenza con il giovane nipote Mario veniva vissuta dal pittore con l'animo sulla difensiva e una meticolosità dettate da un carattere costellato di nostalgie e amarezze. Ma anche da un paterna bontà. "Voglio che mi considerino davvero come un padre" egli pensava commosso nel momento in cui, con i pochi soldi messi da parte grazie alle sempre più rade commissioni pittoriche acquistava piccoli regali alla famiglia, soprattutto per le bambine. Chissà quanta tenerezza deve aver provato Lorenzo quando sui banchi del mercato di Rialto sceglieva scarpe e vestitini per la piccola Lauretta.
Qualche volta a cena capitava qualche amico, non molti per la verità, il più assiduo era il Sansovino. Alla sera, Lorenzo annotava tutto sul proprio quaderno, silenzioso e fedele compagno delle sue confidenze. Qualche anno dopo Lorenzo decise che era ormai giunto il momento di togliere il disturbo e si trasferì prima a Treviso, presso un amico, poi partì per le Marche, la terra che più volte in passato l'aveva accolto e gli aveva fornito occasioni di lavoro. Ma neanche lì riuscì a trovare committenti interessati alla sua arte.
Stanco e provato, egli decise, nell'agosto del 1550, di stabilirsi definitivamente a Loreto e di prendere i voti. Nel suo quaderno scrisse: "Per non andarmi avolgendo più in mia vecchiaia ho voluto quetar la vita in questo Santo locho". Lì si spegnerà l'8 settembre del 1554.
Oltre alle straordinarie, e troppo tardi rivalutate, opere d'arte sparse nelle collezioni di tutto il mondo, Lorenzo Lotto ci ha lasciato il proprio quaderno: un documento che rappresenta la grande umanità di questo sfortunato e incompreso artista


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Version française
(Fonti: D. Mazzetto - P. Zampetti)

venerdì 14 gennaio 2011

"Non potevo prender sonno la notte scorsa e vegliai a lungo. Stupendamente bello il Canal Grande di notte. Passa una gondola davanti al palazzo. In lontananza, gondolieri si chiamano l'un l'altro col canto. Ciò è straordinariamente bello e nobile. Questi motivi profondamente melanconici che, cantati con voce intonata e possente, vanno, trascorrendo sulle acque, a spegnersi più lontano ancora, mi hanno altamente ispirato. Sublime."
(Richard Wagner, 1858)

giovedì 13 gennaio 2011

Il progenitore del Cinema

Verso la fine del Settecento, in giro per Venezia e in special modo nei pressi di Campo Santa Maria Formosa, sostavano le prime "scatole magiche", che attraevano e incuriosivano i passanti. Erano dei rudimentali visori in legno, sorretti da un treppiede, nelle quali attraverso un apposito foro munito di lenti si poteva vedere, a pagamento, delle immagini panoramiche, a volte anche con effetti tridimensionali, di varie parti del mondo, in special modo dell'America, allora chiamata "Mondo Nuovo". Le immagini vennero ben presto associate all'apparecchio stesso, che prese così, nella parlata comune, questo nome.

La gente si accalcava per guardare quelle immagini di paesi lontani, portando  anche i bambini, proprio come in seguito al cinema (di cui il "Mondo novo" può essere considerato un progenitore). Tecnicamente consisteva in una sorta di scatola al cui interno un fascio di luce (prima una semplice candela, poi una lampada ad olio, e per questo motivo era chiamata anche "lanterna magica"), colpiva un'immagine trasparente (in genere immagini dipinte su lastre di vetro) e la proiettava ingrandita su un schermo bianco.

Oltre all'immagine (qui sopra) dell'incisore G. Zompini che documenta l'oggetto in sé, è rimasto celebre l'affresco di Giandomenico Tiepolo che raffigura una piccola folla di spalle in attesa di poter ammirare i lontani paesaggi grazie alla "scatola magica".

Alcuni esemplari ancora funzionanti sono esposti presso il Museo Nazionale del Cinema a Torino



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Version française
(fonti: M. Brusegan - E. Pascarella)

martedì 11 gennaio 2011

“Quando cerco una parola per sostituire musica, non trovo altro che Venezia
(F. Nietzsche)

lunedì 10 gennaio 2011

Il Sol Levante a Venezia

All'ultimo piano di Ca' Pesaro, oggi sede della Galleria Internazionale d'Arte Moderna, da molti anni si trova il Museo d'Arte Orientale di Venezia.

Venezia fu, nel 1873, la prima città europea in cui venne istituito un consolato giapponese dopo San Francisco e New York - quello stesso anno furono istituiti in città dei corsi di lingua giapponese, oggi quei corsi sono confluiti nell'Università di Cà Foscari. Pochi anni più tardi anche l'arte giapponese fece il suo ingresso ufficiale in Europa sempre attraverso Venezia con la partecipazione di alcuni artisti alla seconda Biennale Internazionale d'Arte nel 1897.

Il Museo costituisce una delle più importanti collezioni mondiali di arte giapponese del Periodo Edo. Raccolta che il Principe Enrico II di Borbone, conte di Bardi, acquistò durante il suo viaggio in Asia, compiuto tra il 1887 ed il 1889. Più di 30.000 pezzi tra i quali spade e pugnali, armature giapponesi, delicate lacche e preziose porcellane, con ampie sezioni dedicate all’arte cinese e indonesiana.
D'altra parte i rapporti tra Venezia e l'estremo oriente risalgono già ai tempi di Marco Polo e del suo mitico viaggio.

Da sempre corre voce che tra le sale di Ca' Pesaro si aggiri lo spettro di un antico samurai, bardato dell'armatura tipica dei guerrieri giapponesi e armato della leggendaria katana, la spada creata per servire un solo combattente.

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sabato 8 gennaio 2011

"Domani tuttavia dovrò lasciare le mie dolci gondole. In questo momento sono in una di esse, in veste da camera e pantofole, intento a scrivere in mezzo alla strada, cullato ad interim da una musica celeste"
(Charles de Brosses)

venerdì 7 gennaio 2011

Il Mondo Nuovo di Giandomenico Tiepolo

"Da vivo, Giandomenico Tiepolo era stato considerato soprattutto come il figlio del più celebre Giambattista Tiepolo, autore di numerosi affreschi a cui Giandomenico aveva collaborato. Ma il Mondo Nuovo, dipinto in origine nel più completo anonimato su una delle pareti della casa di campagna di famiglia, iniziato probabilmente verso il 1750 e terminato solo nel 1791, aveva sempre intrigato gli esperti per quella sua atmosfera strana, quel suo mistero irriducibile.
Tutta una folla, vista di spalle o di profilo, che assisteva ad uno spettacolo invisibile. In lontananza, il mare. Un'esecuzione sorprendente. Personaggi sorpresi in atteggiamenti famigliari durante una scena pubblica. Ma niente a che vedere con l'estro sorridente di Longhi o di Guardi. Blu lattiginosi, giacche color crema, arancio spento, abiti beige. Una sorta di morbida ieraticità nella curva delle spalle, nella posizione delle teste. La sensazione che tutta questa folla colta nell'energia dell'istante deviasse al contempo verso un altrove silenzioso, uno spazio onirico.
La delicatezza delle tonalità sembra giungere da un'Italia lontana e spirituale, quella di Piero della Francesca, ma il soggetto è incredibilmente moderno, di una stranezza funambolesca. Invitare a guardare ciò che non si vedrà. Uno spettacolo di strada. Tutte le categorie sociali mescolate, dal borghese panciuto con la parrucca al Pierrot uscito dritto dalle scene della commedia dell'arte, dalle popolane prosperose protese in avanti alla dama elegante con il cappello in testa e una mano sul fianco.
Ma il vero segreto è il personaggio arrampicato su uno sgabello e che tiene in mano una lunga bacchetta, una specie di asta, la cui estremità raggiunge il centro della scena. Che significato attribuire al suo gesto? Non è per attirare l'attenzione dei curiosi, già catturati dallo spettacolo. Interviene forse come deus ex machina, per fungere da interprete tra il pittore e gli spettatori dell'affresco, per sottolineare l'importanza di ciò che resta invisibile ai nostri occhi?"
(P. Delerm)

"L'affresco rappresenta una piccola baracca intorno alla quale si agita una folla di gente ansiosa di affacciarsi. Che cosa si vede? Che cosa ci si potrebbe vedere? Forse che un pittore di due secoli fa ha intravisto questo nostro "mondo" purtroppo "nuovo" perché inverosimile?"
(G. Francesco Malipiero)

[L'affresco in questione si trova al Museo del Settecento di Ca' Rezzonico, Venezia]

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giovedì 6 gennaio 2011

"Mentre l'arte fiorentina si distingue nel disegno, nella compattezza plastica e nella struttura architettonica, l'arte veneziana si concentra sul colore e l'atmosfera, sulla squisitezza pittorica e l'armonia musicale"
(Erwin Panofsky)

mercoledì 5 gennaio 2011

Venezia all'alba del XX secolo

Davanti all'obiettivo di Tomaso Filippi, alcune giovani veneziane si espongono con candore popolare che intenerisce: colgono l'acqua dai pozzi, rattoppano le reti da pesca, oppure vendono ceste di pesce al mercato di Rialto. Le loro madri, sedute in cerchio sull'uscio di casa, infilano perle chiacchierando tra loro. I corpi sono infagottati negli abiti consunti e troppo larghi. I volti sono tristi, i capelli ribelli, le scarpe scalcagnate.
Quando l'alba sorge sul XX secolo, Venezia soffre di un netto ritardo rispetto alle altre città italiane. Bisogna creare lavoro, unire l'isola alla terraferma. La fragile struttura acquatica viene sventrata con fragore e brutalità. La modernità preme e si affretta ad omogeneizzare e banalizzare tutto.
I ricchi stranieri acquistano a basso prezzo i palazzi da sogno che erano stati abbandonati dalle antiche famiglie patrizie della Serenissima. I nuovi occupanti ricevono ed invitano il fior fiore degli scrittori, dei pittori, degli esteti e dei collezionisti che, di giorno e di notte, esplorano, con il naso all'insù, il labirinto delle calli silenziose e deserte. All'ora del tè si passeggia in Piazza San Marco, prima di ritrovarsi al Quadri o al Florian, sulle piccole panchine cremisi, avvolti nei cappotti confezionati dallo spagnolo Mariano Fortuny. Si vive Venezia dentro se stessi, come una religione. Infine, calata la sera, sotto le stelle, nelle gondole o nelle barche da pesca, ci si dà alla serenata, ripassando o inventando melodie veneziane.
Offesi e feriti da una modernità rumorosa, invadente ed aggressiva, molti veneziani guardano con diffidenza e freddezza la loro immagine dai contorni poco definiti che si riflette nello specchio spezzato del presente.
L'amore folle, ossessivo, a volte addirittura morboso degli stranieri per Venezia aiuta forse alcuni di loro a riprendere il filo del discorso bruscamente interrotto con il loro passato. A scendere nel pozzo buio e profondo della storia per cercarvi i tesori che decenni di occupazione francese ed austriaca avevano finito col nascondere e far dimenticare. Un patrimonio la cui esistenza era stata cancellata, e che bisognava ora riesumare, trascrivere, pubblicare, suonare, studiare e trasmettere ai più giovani.

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